Non parlo mai di quel che mi accade al lavoro, nel posto in cui lavoro, ma stavolta faccio un’eccezione.
Mi è accaduto ieri sera di dover tornare a lavorare in reperibilità; l’incarico era presidiare una certa zona ove era avvenuto un infanticidio.
Premetto che non ho fatto nulla e per questo mi permetto di scrivere due righe, in modo da non violare alcun segreto.
Non avevo mai vissuto in precedenza un’esperienza così orribile e ne ho provato uno stranissimo senso di estraneazione, come se quel che avevo davanti agli occhi fosse una scena irreale.
Un paio di frasi con alcuni colleghi mi hanno fatto pensare a Medea che uccide i propri figli avuti dal traditore Giasone, che l’aveva “detronizzata” da donna-partner a madre.
Ovviamente non mi riferisco all’episodio di Luzzara ma penso che l’idea di eliminare i propri figli non è certamente un’invenzione moderna, tutt’altro.
Il mio collega, stupito dal racconto di Medea, mi ha chiesto: “ma è successo davvero?”, ovvio che no visto che si tratta di una tragedia, un’opera teatrale, ma il fatto che sia stata pensata e addirittura concretizzata in un’opera teatrale la dice lunga su quanto quell’idea fosse presente già presso i greci: un pensiero antico.
Quel che mi turbava, comunque, era l’idea di questo bambino che era in auto con la mamma, fiducioso credo, senza timore, che all’improvviso scopre che la tanto amata mamma … non gli vuole proprio così bene come ci si aspetterebbe, tanto che lo uccide.
Spero fosse addormentato perchè tremo pensando a quel momento in cui il bambino ha avuto conferma (immagino avesse già avuto qualche segnale) che non è affatto vero che la mamma è colei che ama i propri figli.
Non è tragicamente vero che la mamma ama i figli.
Su questo inganno è stata costruita una civiltà
Il corpo del bambino mi ha ricordato il famosissimo dipinto di Caravaggio “L’incredulità di Tommaso” e il testo dell'”Ave Verum Corpus“, precisamente le parole “unda fluxit et sanguine“, ma in entrambi questi capolavori la ferita al costato è sinonimo di vita, di resurrezione e di vita, mentre nel freddo di quella carraia regnava solo la morte.
Mi è tornato alla memoria anche un brano di C.S. Lewis, tratto da “I quattro amori”, che ho scoperto grazie al contributo del dottor Luigi Ballerini all’ultimo simposio milanese del 2 dicembre.
La protagonista, signora Fidget, ha una storia ben diversa, almeno nell’esito finale, ma credo che abbia a che fare con questa tragedia terribile: un diverso modo di uccidere.
Tutti reagiscono ai fatti di sangue (o a quelli di pedofilia) ma nessuno presta attenzione alla teoria che quei fatti produce.
Nessuno, come dicevo, è disposto a mettere in discussione il dogma che la mamma ama.
Riporto di seguito il testo della signora Fidget:
“Molte perversioni dell’affetto sono collegate principalmente all’affetto inteso come “amore bisogno”; ma anche l’affetto nella sua forma di “amore dono” non è immune da travisamenti. Penso a una certa signora Fidget, che morì alcuni mesi or sono. È sorprendente vedere come la sua famiglia, da allora, si sia rianimata. L’espressione tesa è scomparsa dal volto di suo marito; a volte lo si vede persino sorridere. Il figlio più piccolo, che consideravo una creatura scontrosa e malevola, sta ora rivelando doti di umanità. Il maggiore, che non era mai in casa, se non nei momenti che passava a letto, ora è quasi sempre là, e si è messo a risistemare il giardino. La figlia, considerata da tutti “di salute cagionevole” (anche se non ero mai riuscito a scoprire di che male soffrisse) ora prende lezioni di equitazione – il che un tempo sarebbe stato impensabile – va a ballare tutte le sere e gioca quanto vuole a tennis. Persino il cane, che non poteva uscire se non condotto al guinzaglio, ora è un ben noto membro del Club del Lampione della strada dove abitano. Si sentiva spesso dire, alla signora Fidget, che viveva per la sua famiglia, il che non era certo falso, come tutti i vicini ben sapevano. “Quella donna vive per la sua famiglia – dicevano – che moglie, e che madre!” Faceva tutti i bucati da sola. Vero; lo faceva male, e si sarebbero potuti permettere la spesa della lavanderia; spesso la pregavano di non farlo, ma lei continuava ostinatamente. C’era sempre qualcosa di caldo a pranzo per chi restava a casa, e sempre qualcosa di caldo per cena (anche d’estate). La imploravano di non preparare nulla; le giuravano, quasi con il pianto in gola, di preferire i piatti freddi (ed era vero), ma senza risultato. Lei viveva per la sua famiglia. Rimaneva sempre alzata per dare il “bentornato” a chi, di notte, rincasava tardi; le due o le tre del mattino, non faceva differenza, trovavi sempre lì ad aspettarti quel viso tirato, fragile e pallido, quasi una silenziosa accusa; il che significava, naturalmente, che non si poteva uscire troppo spesso, a meno di non passare per un individuo senza scrupoli. Per di più, era sempre indaffarata per qualche cosa; ella si reputava, infatti (non so giudicare se a ragione o torto), un’eccellente sarta dilettante e un’esperta della maglia. È ovvio che poi, in casa, fossero tutti costretti a indossare quella roba; a detta del vicario, dopo la sua morte, i contributi di quella famiglia alle “vendite di beneficenza” superano, da soli, quelli messi insieme da tutti gli altri parrocchiani.
E poi, come si preoccupava della loro salute! Da sola sopportava il fardello della “salute delicata” della figlia. Il dottore – un vecchio amico, dato che tutto veniva fatto al di fuori dell’assistenza sanitaria pubblica – non poteva mai parlare direttamente con la sua paziente, dopo una brevissima visita la madre se lo portava in un’altra stanza; la ragazza non doveva avere alcuna preoccupazione, nessuna responsabilità per la propria salute; per lei c’erano soltanto cure amorose, carezze, diete speciali, disgustosi cordiali ricostituenti, e colazioni a letto. La signora Fidget, infatti, com’era solita ripetere, si “ammazzava di lavoro” per la sua famiglia. Non c’era modo di impedirglielo, né era possibile restarsene seduti a guardarla, senza sentirsi in colpa. Dovevano aiutarla; la verità è che si sentivano continuamente in dovere di aiutarla. Il che significa che erano costretti a fare delle cose per lei, onde aiutarla a fare delle cose per loro che, personalmente, non desideravano ella facesse.
Quanto al suo caro cagnolino, diceva di considerarlo “proprio come uno dei miei figli”. Fin dove le era riuscito, infatti, esso assomigliava esattamente a uno di loro, ma, non avendo scrupoli, se la passava molto meglio e, per quanto sottoposto a continui controlli veterinari e diete, e guardato a vista, riusciva talvolta a raggiungere il bidone della spazzatura o il cane del vicino.
Il vicario dice che ora la signora Fidget riposa in pace, speriamo sia davvero così; quello che è certo, è che ora la sua famiglia ha finalmente trovato la pace. È facile come, nel caso dell’istinto materno, la tendenza a comportarsi in questo modo sia, per così dire, innata. L’affetto materno, infatti, è un “amore dono” ma tale da avere bisogno di dare; perciò ha bisogno di rendersi necessario, mentre lo scopo proprio di un dono dovrebbe essere quello di porre chi lo riceve nella condizione di non avere più bisogno del nostro dono. Si nutrono i figli per metterli presto in grado di nutrirsi da soli; si insegna loro affinché presto possano fare a meno dei nostri insegnamenti. È dunque un compito ingrato quello che spetta all’ “amore dono”: esso deve, infatti, operare in vista della propria abdicazione. Dobbiamo mirare a renderci superflui. Il momento in cui potremo dire: “Non hanno più bisogno di me” dovrebbe anche essere il momento della nostra ricompensa. Ma il nostro istinto, di per sé, non può arrivare a tanto; esso desidera il bene del proprio oggetto, ma non in maniera così limpida: desidera soltanto il bene che noi stessi possiamo dargli. Dovrebbe invece subentrare un tipo d’affetto più alto, che desideri veramente e soltanto il bene del proprio oggetto, da qualunque parte gli venga, aiutandoci ad addomesticare l’istinto, e a metterlo quindi in grado di abdicare. Questo riesce di frequente; ma dove ciò non si verifica, il bisogno famelico di rendersi necessari troverà giustificazione in sé stesso, o tenendo il proprio oggetto in condizione di eterna dipendenza, o creando per lui dei bisogni fittizi. E lo farà con tanta maggiore spregiudicatezza quanto più sarà convinto, con un fondamento di verità, di essere un “amore dono” e, come tale, “altruista”.
Anche la mia professione – l’insegnamento universitario – è, in questo senso, pericolosa. Se un docente vale davvero, dovrà impegnarsi affinché giunga presto il momento in cui i suoi allievi saranno in grado di essere i suoi critici e rivali. Dovremmo provare un gran piacere, una volta giunto questo momento, allo stesso modo che il maestro di scherma è soddisfatto quando un allievo arriva a toccarlo con il fioretto e a disarmarlo. E molti, effettivamente provano soddisfazione.”
Possano i poveri Kim e Lorenzo riposare in pace.
Parma, 8 dicembre 2017 solennità dell’Immacolata Concezione di Maria