All’inizio è stata dura, periodi brevi, dialoghi smozzicati, quasi che i personaggi non fossero disponibili a far entrare il lettore nella storia.
Incespicavo continuamente, ma avendo letto gli altri libri, non potevo demordere e lasciare l’impresa, così ho seguito il protagonista nei suoi dubbi, nelle sue angosce e nella ricerca di una soluzione che sembra impossibile.
Il linguaggio mi sembrava così minimale, descrittivo di tanti dettagli che avrei chiamato inutili se non fossero serviti a scolpire una sensazione di solitudine, disagio, insoddisfazione.
Come direbbe Freud, le descrizioni degli ambienti ci dicono che l’io del protagonista non è padrone in casa propria. Si salva la cucina, l’arte culinaria che unisce il padre scomparso al figlio.
Questo povero diavolo di protagonista ossessionato dall’essere come il padre: “Mio padre era fragile, certo. Anch’io sono fragile e io sono come lui e anch’io non potrò mai cambiare. Ecco. …
Non è vero? È sempre la stessa storia. Ci nasci? Ci cresci? È il sangue, sono i geni, il DNA, i comportamenti, le carezze della mamma, i primi litigi? Qualunque cosa sia, è così. Hai una natura e non la cambi più.”
Insiste molto su questa idea: “Si può smettere di fare sempre le stesse cose che hanno fatto i padri? Questo il punto, Sara, questo il punto.” Ed ancora: “Sei come tuo padre, Lorenzo. La mattina dormirai sempre meno, non c’è niente da fare. Se proprio come tuo padre.”
La natura… fissazione e alibi perchè tutto resti uguale.
Il povero Lorenzo sembra non in grado di uscire da un circolo vizioso che rischia di condannarlo a ripetere, almeno in parte, gli errori del padre ed a finire come lui, senza nessuno che lo accompagni in chiesa per l’ultimo viaggio (ma l’angoscia è sempre di vita, non di morte: il timore è la solitudine attuale in cui il protagonista si trova).
Lorenzo è un traditore che non ha saputo e voluto elaborare i tradimenti dell’amico Marco, della moglie e della compagna. Ne ha preso coscienza, forse, ma l’acquisita maggiore lucidità è inutile e addirittura pericolosa se non accompagnata da una scelta, morale, di cambiamento.
L’incontro con Marco non è risolutivo, non vi è un giudizio che permetta di chiudere col passato ed eventualmente riaprire verso il futuro.
L’amicizia è un giudizio di affidabilità attraverso il criterio della convenienza; l’amicizia è portare acqua al mulino, quindi sempre un giudizio a posteriori (è al futuro anteriore) che si declina secondo la triplice norma: I. amicizia per il pensiero, II. non ostilità per il pensiero, III. non indifferenza per il pensiero.
Non ci sono intimismi o “corrispondenze d’amorosi sensi”, non c’è il dirsi tutto e nemmeno le care amicizie di quando si era bambini: il giudizio è giuridico ed economico.
Ringrazio per questo criterio, che cerco ogni giorno di far mio, il lavoro di Giacomo Contri.
Mi accorgo solo ora di avere tenuto in serbo per la fine il titolo di questo romanzo, buon ultimo nella lettura, primo nella redazione, di altri due libri bellissimi di cui ho già parlato.
L’autore è Matteo Nucci, il titolo è “Sono comuni le cose degli amici”, frase che rimanda ad importanti riferimentii storici: da Pitagora all’immancabile Platone.
Dice il vero, il titolo: la comunione tra gli amici, comunione di pensiero perchè non c’è proprietà privata nelle idee, nè confini o copyright; tutto è lavoro su lavoro.
Salvo il copyright, che serve giusto per vivere, il lavoro dello scrittore, come ho già detto, potrebbe proprio incarnare il titolo dell’opera: un mettere a disposizione di chi voglia approfittarne, dei propri pensieri che, se utilizzati, potranno procurare degli amici, senza limiti di spazio, tempo, censo, cultura.