Ho saputo poco fa, con un messaggio, che Roberto Mastri, il professor Roberto Mastri, è morto, stamattina alle 10:00, proprio mentre stavo scrivendo un post sul miracolo, quello che chiedevo in suo favore, da tempo.
Siamo stati compagni di università, entrambi laureati in filosofia, lui prima (e meglio) di me.
Ci siamo conosciuti lì, in quel di Bologna, lui proveniente da Forlì, il ritratto dell’equilibrio, della pacatezza, della ragione e della ragionevolezza, a tacer della riservatezza.
Sempre moderato nell’espressione, dal vestire al parlare, nulla mai sopra le righe o scomposto; si ricorda un momento di rabbia, a fronte di un rifiuto di modifica del piano di studi di una comune amica, cui reagì con una frase, che rammento come il colmo dell’ira: “quasi quasi vado a dirgliene quattro”, indirizzata al docente che aveva commesso quell’ingiustizia.
Ora chi mi conosce sa bene quanto io sia agli antipodi di siffatta costituzione: caciarone, eccessivo, emotivo, irrazionale – e ai tempi ero molto, molto, peggio.
L’incontro con un tipo come Roberto avrebbe potuto concludersi da subito nell’antipatia o nell’indifferenza – uno come tanti di cui non ricordo né volto né nome – e invece siamo diventati inspiegabilmente amici.
Non oso immaginare quanta pazienza e carità gli siano costate per mantenere questo rapporto.
Il destino professionale è stato molto diverso, inutile ripercorrerne qui le tappe; abbiamo continuato a sentirci, per quanto non con grande frequenza, subissato dal lavoro com’era lui.
Mi ha assistito nelle mie avventure informatiche, la nascita di questo sito ad esempio, è dovuta gran parte al suo aiuto anche con sostegno concreto e con stimolo a non fermarmi ai limiti che spesso incontravo e di cui mi lamentavo, ricevendo puntualmente la risposta: “é nelle tue possibilità, hai già fatto cose molto più complicate, quindi impegnati, non ti do il pesce oggi ma ti insegno a pescare”.
La sua vita è stata quella di un monaco nel mondo, ha vissuto il lavoro con una serietà e dedizione da vero monaco, secondo il principio dell'”ora et labora”, declinato nelle forme della spiritualità di Comunione e Liberazione, cui è rimasto sempre fedele col giusto giudizio, ne abbiamo parlato anche in uno dei colloqui di questi mesi.
Lo consideravo un monaco anche ai tempi dell’università, guardando con incredulità e stupore i suoi scritti, allora si era amanuensi, redatti in una grafia elaborata e precisa come un codice medioevale miniato (amavamo la storia medioevale, a quei tempi, ed abbiamo ricordato anche di recente le lezioni che il professor Ovidio Capitani teneva in via Centrotrecento).
E le lezioni col professor Maurizio Malaguti di venerata memoria? e le chiacchiere amabili col futuro Don Lino Goriup di non meno venerata memoria?
Ha dedicato tutto se stesso all’incontro che gli ha cambiato la vita, su questo ha costruito, approfondendo, riflettendo, motivando: “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto”.
Poi un giorno, come il classico fulmine a ciel sereno, mi è arrivato questo messaggio “Ciao, scusa non vorrei essere “brutale” con questa notizia, ma durante le vacanze le mie condizioni di salute sono peggiorate e ora mi trovo ricoverato a Ravenna in attesa di cure oncologiche. Una roba seria, ma non irreparabile. Non ho bisogno di nulla qui, salvo che del sostegno di qualche preghiera. 😘😘🤗🤗”; era il 24 gennaio 2022.
Ci siamo sentiti, per telefono varie volte, parlando normalmente per un’oretta ogni volta, fino al suo sfinimento – io mai mi stancavo a parlare con lui, è sempre stato un piacere.
Abbiamo parlato di tutto, della sua malattia, ovviamente, delle prospettive, della non paura della morte ma del desiderio di guarire, di recuperare quanto aveva tralasciato, dei viaggi da fare assieme (come eravamo riusciti in gioventù a fare qualche volta – a Venezia ad esempio).
Ci siamo sentiti l’ultima volta, aveva una voce flebile che mi fece preoccupare, il primo di marzo; mi disse che era ricoverato all’ASP di Forlimpopoli, dove era ben trattato, per via della terapia del dolore in attesa di fare, l’indomani, gli esami del sangue per verificare se fosse possibile la somministrazione della terapia, al momento sospesa, aggiungendo che forse non sarebbe stata ripresa.
Lo congedai velocemente, rimandando ad altro momento maggiori dettagli perché manifestava, dalla voce, una tale spossatezza che non volevo farlo affaticare; gli ribadii la mia disponibilità a dargli una mano per qualsiasi necessità, ma mi rassicurò – come tante altre volte – dicendomi che lui era servito e riverito e che il problema era sua madre, della quale si stava prendendo però cura l’intera sua fraternità (e non c’erano dubbi in proposito).
Una nota buffa: gli raccontavo, durante le conversazioni di questo anno – me ne chiedeva con interesse – delle mie disavventure sanitarie, dei due interventi e della convalescenza, del lungo periodo in compagnia col mio amico catetere e lui mi diceva che gli ero di conforto e sostegno per come vivevo queste traversie.
Lo prendevo in giro (quando mai non l’ho fatto?) facendogli notare che le mie erano semplici “Quisquilie, bazzecole, pinzillacchere, sciocchezzuole!” rispetto alle sue vicende ma lui ribadiva, con serietà e convinzione che, invece, ero sul serio un conforto, gli indicavo un bel modo di affrontare le difficoltà della sua malattia.
Ci sarebbe da dire tanto ancora, ad esempio, sulla garbata ironia, sulla condivisa passione per Tolkien – abbiamo parlato de Il signore degli anelli varie volte in questi mesi – sull’amore per l’insegnamento, seppur messo in secondo piano rispetto alle numerosissime incombenze che l’impegno scolastico gli richiedeva.
Di Roberto posso dire una caratteristica ai miei occhi quasi unica: in un qualche modo ha accettato di farsi carico anche del mio destino, sin dai tempi dell’università, sorta di padre del quale ho sempre percepito l’affetto, lo sguardo benevolo, la reale amicizia nel sostegno di quel pensavo ed il grande rispetto per i tempi, solo di lui e del professor Malaguti posso dire che ne percepivo lo sguardo buono, anche quando chiaro nel giudizio critico (non che anche altri non lo abbiano o abbiano avuto ma loro due, in questo, sono stati speciali).
Non riferirò quel che mi ha detto più volte nelle telefonate di questo ultimo anno ma sono state parole che erano riconoscimento di un lavoro svolto, sostegno a continuare nella direzione intrapresa, stima per quanto realizzato.
Ecco oggi mi sembra tutto buio, seppur nella consolante certezza che Roberto ha combattuto la sua buona battaglia, ha terminato la corsa conservando la fede, cioè il giudizio di convenienza sul rapporto con quel Signore col quale ha camminato per l’intera esistenza.
L’ho sempre chiamato San Roberto ed oggi più che mai sono sicuro che poco o nulla di lavoro di correzione gli resti da compiere – quel che noi cristiani chiamiamo purgatorio – e che, anzi, san Pietro, da clavigero non ingenuo quale sappiamo che è, lo accoglierà con entusiasmo in paradiso.
Chiudo citando un brano che utilizzo sempre in simili tristi occasioni; in questo caso mi sembra ancor più adeguato perché ci univa, con Roberto, la passione per il capolavoro da cui il brano è tratto, manco a dirlo, Il Signore degli anelli.
Oggi mio carissimo ed infingardo (che mi hai giocato questo brutto scherzo, andandotene anzitempo) Roberto, oggi mi sento proprio come Arwen, in una notte d’inverno senza stelle con gli occhi spenti da cui cadono amare lacrime, ma dopo il venerdì santo viene la Pasqua di Resurrezione e sarebbe un tradire la tua amicizia fermarsi a contemplare il sepolcro.
Ecco le parole di Tolkien:
…
Ora, pertanto, dormirò.
“‘Non ti consolerò: non c’è conforto per un tal dolore entro i cerchi del mondo. Davanti a te hai la scelta suprema: pentirti, scendere agli Approdi e portare con te all’Ovest il ricordo dei giorni trascorsi assieme, che sarà semprevivo laggiù, ma pur sempre soltanto un ricordo; oppure accettare il Fato degli Uomini.’
“‘No, amato sire,’ disse lei, ‘quella scelta è fatta ormai da tempo. Nave non c’è che possa portarmi via da qui e, volente o nolente, io dovrò accettare il Fato degli Uomini: la perdita e il silenzio. Ma io ti dico, Re dei Númenóreani, che finora non avevo capito la storia del tuo popolo e della sua caduta. Li disprezzavo in quanto sciocchi e malvagi, ma ora, finalmente, li compiango. Perché se questo è in verità, come dicono gli Eldar, il dono dell’Uno agli Uomini, è amaro da ricevere.’
“‘Così pare,’ disse lui. ‘Non cediamo però di fronte alla prova finale, noi che un tempo rinunciammo all’Ombra e all’Anello. Dobbiamo lasciarci con tristezza, ma non con disperazione. Guarda! noi non siamo eternamente confinati entro i cerchi del mondo e, al di là, c’è più che il ricordo. Addio!’
“‘Estel, Estel!’ gridò lei e, a questo punto, proprio mentre le prendeva la mano e la baciava, si addormentò. Allora una grande bellezza si rivelò in lui, talché tutti coloro che poi accorsero, lo guardarono strabiliati; perché fuse in uno videro la grazia della giovinezza, la fortezza della maturità e la saggezza e la maestà della vecchiaia. E a lungo ivi restò, immagine dello splendore dei Re degli Uomini nella loro gloria inoffuscata anzi che il mondo si rompesse.
“Ma Arwen lasciò la Casa, e la luce dei suoi occhi era spenta, e al suo popolo sembrava che fosse divenuta fredda e grigia come notte d’inverno senza stelle.
Parma – Forlì 9 marzo 2023 memoria di Santa Francesca Romana, religiosa, e di san Domenico Savio