Ho finito da poco di rileggere una delle opere più famose del mio amatissimo Shakespeare, il Re Lear.
Tali e tanti si sono occupati di quest’opera che sin da subito è bene precisare che non ho nulla di nuovo da dire.
La storia, in breve, è quella di un sovrano che rinuncia al trono in favore delle figlie, non ha figli maschi ma tre femmine, una delle quali viene diseredata e presa in sposa dal re di Francia, mentre le altre due si spartiscono il regno.
Situazione teoricamente favorevolissima per tutti o quasi poiché l’eredità è ricevuta, come si dice, “a babbo vivo”; in realtà non si tratta di associazione alla sovranità ma di abdicazione del padre, che rinuncia al regno e chiede alle figlie di essere mantenuto come una sorta di pensionato di lusso, in fondo come un costoso parassita.
Chi si oppone a questa decisione è vittima degli strali di re Lear, che, infatti, condanna Kent all’esilio.
Le due eredi, non buone eredi, trattano male il padre, sminuendone ruolo e seguito: entrambe vogliono il padre morto (anche se non nell’immediato, almeno fisicamente), quasi a voler negare proprio il principio ereditario, la legittimità di un potere costituzionale pacifico ricevuto da altri come apertura di credito.
Come in Macbeth (e ricordo quello di Branciaroli visto a Milano) c’è anche l’inversione dei ruoli con re Lear che diventa quasi femmineo nella sua abdicazione, mentre le figlie, Goneril e Reagan, sono veri uomini, che sottomettono anche i propri mariti.
Come sempre in Shakespeare, la crisi nel rapporto uomo donna ha l’equivalente nei disordini sociali: la discordia famigliare si riflette nella guerra civile.
In parallelo alla vicenda di re Lear c’è quella del conte di Gloucester, padre di due figli, di cui uno illegittimo.
Quest’ultimo, ancora un problema di eredità e successione legittima, è disposto a qualunque cosa pur di acquisire il potere e subentrare al fratello nei suoi diritti di erede legittimo; la guerra tra sorelle ha un parallelo nella contesa tra fratelli.
Il figlio maggiore, ingenuo, cade nella trappola ordita dal fratello, così come il padre, che lo condanna a morte; il giovane si salverà soltanto trasformandosi in un essere quasi subumano, che sopravvive di elemosine fingendosi pazzo e perseguitato dal demonio.
L’ingenuità non è una virtù come ben chiarisce il bastardo Edmondo:
“Un padre credulo, un fratello nobile,
così alieno per sua stessa natura,
dal pensar male, che mai giungerà
a sospettare il male in altrui animo;
questi miei stratagemmi,
a cavallo di tanta balordaggine
cavalcano a tutto lor talento.
Ora vedo l’affare: avrò le terre,
se non per nascita, per perspicacia.
Per me ogni mezzo è lecito,
purché teso a raggiungere il mio fine.”
L’ascesa del bastardo Gloucester è inarrestabile: una volta tradito il padre, i cui occhi vengono trafitti per punizione dal duca di Cornovaglia, egli diventa il “favorito” di entrambe le sorelle.
Il padre Gloucester, quasi un mix tra Tiresia ed Edipo, perdendo la vista, guidato dal figlio legittimo, scoprirà la sua insipienza per arrivare a morire riconciliato e in pace.
Cordelia, venuta in soccorso del padre, viene sconfitta, catturata ed uccisa, mentre Goneril e Reagan si odiano ferocemente a causa del desiderio di entrambe di divenire la sposa, cioè la prediletta, del bastardo Gloucester in un gioco che forse potrebbe essere definito sadomasochistico; per entrambe la conclusione sarà tremenda, Shakespeare non ha lo spirito democristiano o cattocomunista: una si suicida, vistasi scoperta nelle sue trame, mentre l’altra muore avvelenata dalla sorella rivale in amore.
C’è un personaggio, tuttavia che ha attirato la mia attenzione ed è il giullare, il Fool, cioè il matto; questo giovane ricorda a re Lear la verità o meglio gli manifesta, quasi fosse il suo intelletto, quel che il re ha combinato.
Ecco uno stralcio che è tutto un programma:
“LEAR – No, ragazzo: da niente viene niente.
MATTO -(A Kent) Digli tu, per piacere,
che altrettanto ricava adesso lui
dalle sue terre: se lo dice un matto
non vorrà crederlo.
LEAR – Un Matto amaro.
MATTO – Sai, amico, qual è la differenza,
che c’è tra un matto amaro e uno dolce?
LEAR – No, dimmela, ragazzo.
MATTO – “Quel signore che ti dié
“il consiglio di dar via
“le tue terre, per follia
“venga a far coppia con me:
“è la parte adatta a te.
“Ecco allor due matti a paro:
“matto dolce e matto amaro:
“uno, in veste di buffone, è qui,
“l’altro… eccolo lì”.
LEAR – Che!, ragazzaccio, tu mi dai del matto?
MATTO – Gli altri titoli tuoi li hai dati via
tutti quanti: con questo ci sei nato.
KENT – Tutto matto costui non è, signore.
MATTO – No, in coscienza; non lo permetterebbero
lorsignori gli altolocati e i grandi:
se dovessi far io della pazzia
un monopolio mio, tutti costoro
ne vorrebbero anch’essi la lor parte;
anche le dame… non mi lascerebbero
avere la pazzia tutta per me;
verrebbero a strapparmela coi denti
per avere ciascuna la sua parte.
Zietto, toh, se tu mi dài un uovo,
io ti do due corone.
LEAR – Che corone?
MATTO – Dopo averlo spaccato per metà
e trangugiato il buono, le due cocce.
Quando tu hai spaccato la corona
per metà, e hai dato via così
di qua e di là entrambe le sue parti,
ti sei messo il somaro sulle spalle
per fargli traversare la palude.
C’era rimasto ben poco cervello
dentro quella corona tua pelata
quando da essa hai tolto quella d’oro.
Se sono matto a dirti queste cose,
sia fustigato il primo che lo afferma.”
La verità, in questa tragedia, è rappresentata da Kent e dal Matto; essi parlano inascoltati o addirittura banditi, il che significa che la verità è inefficace e non solo, è addirittura clandestina.
Una verità non giuridica non produce altro che opposizione, per questo la verità scientifica è inutile ai fini della guarigione.
Questo spiega la posizione dell’analista: “l’analista sa di non poter fare il bene che pure conosce” come dice Giacomo Contri in breve saggio, tratto dall’opera fondamentale “Il pensiero di natura”, intitolato “Il bene dell’analista” che così precisa: “«psicoanalisi» significa anche la scoperta – nel significato scientifico della parola – che non esistono verso la malattia psichica atti terapeutici o curativi unilateralmente transitivi, nel significato anche solo analogicamente medico della parola «terapia» – cioè procurati da un professionista a un malato –, che siano atti a procurare un tale bene. In altri termini: che non esiste psico-terapia è una scoperta della psicoanalisi.”
In nota a queste righe aggiunge: “Atti (psico)terapeutici possono procurare, transitivamente, cambiamenti, non guarigione. La distinzione è a tutto spessore. «Cambiamento» non va preso in opposizione a guarigione, ma soltanto come un dato ambiguo. Per esempio: il passaggio all’asintomaticità – almeno apparente – esiste: nessun dato clinico è più ambiguo di questo. Freud avrebbe preferito non guarire nessuno piuttosto che non sapere perché nel paziente sono caduti certi suoi sintomi.”
Parma, 20 gennaio 2017, memoria di san Sebastiano, martire