Ecco il sesto capitolo di Sessualità e nazionalismo, dedicato all’estraneo, cioè a colui che, per scelta o per “disgrazia” si è trovato fuori dalla porta della società borghese.
Il nazionalismo fu importante per determinare in quale modo uomini e donne venivano considerati dalla società moderna non in quanto singoli ma in rapporto con la rispettabilità.
Il razzismo rafforzò il nazionalismo, in particolare nel suo ambito visivo, evidenziò gli stereotipi delle razze e sostenne che la storia di ogni popolo era determinante per la sua superiorità o inferiorità per il futuro: rappresentò un’intensificazione del nazionalismo poiché dipingeva le differenze tra i popoli come immutabili.
Non ci fu un razzismo unitario bensì diverse forme di ispirazione e con esiti tra loro molto differenti, tuttavia il razzismo nel suo complesso sostenne il nazionalismo nella sua rivendicazione di dominio assoluto, sostenendo, di conseguenza, anche la rispettabilità borghese.
Poiché il razzismo sottolineò anche la distinzione tra vizio e virtù si affermò la necessità di un confine tra la normalità e la diversità, che venne ovviamente stabilito in base alle regole sociali vigenti: questo tipo di razzismo iniziò ad avere influenza verso la metà del XIX secolo e raggiunse il culmine nel periodo tra le due guerre mondiali.
Il connubio tra razzismo e sessualità fu immediato e diretto poiché il razzismo non fece altro che esasperare le tendenze che erano già presenti nell’alleanza tra nazionalismo e rispettabilità: a questo proposito, la descrizione dei negri, sin dall’inizio del XVIII secolo, in Europa, comprendeva la loro presunta incapacità di controllare gli ardori sessuali.
Gli antropologi e coloro che elaborarono gli stereotipi nazionali trasformarono il buon selvaggio in un sanculotto, un individuo senza pudore, incapace di governarsi: lo stereotipo della razza inferiore dedita alla libidine era un luogo comune del razzismo e gli ebrei furono considerati dei libidinosi molto prima che Hitler decidesse di iscriversi al movimento antisemita.
Il razzismo elaborò l’immagine dell’estraneo associandolo, ogni volta che fosse possibile, alla razza inferiore e quindi riconoscendolo come il germe patogeno che avrebbe potuto minacciare la salute della società e della nazione.
La caratteristica di ogni estraneo era, appunto, l’incapacità di controllare le passioni anche se i razzisti utilizzarono numerose differenze nella descrizione delle razze inferiori: il negro era considerato un inetto, l’ebreo un individuo senza anima con la moralità posizionata nella parte bassa del corpo, il malato di mente, gli omosessuali e i criminali abituali condividevano, invece, quell’incapacità di controllo che sembrava minacciare e affliggere le radici stesse della società.
Il razzismo proiettò il suo stereotipo su chiunque non si conformava agli usi e costumi ritenuti appropriati: costruire degli stereotipi in base all’aspetto era, in effetti, connaturato a questo tipo di pensiero che aveva la natura di una ideologia fondata sull’immagine.
Esso accentuò le distinzioni tra normale e anormale in maniera da poter evidenziare preconcetti e pregiudizi della società riguardo all’aspetto e al modo di comportarsi: la spossatezza fu una caratteristica dominante tra quelle stigmatizzate, in opposizione a quel vigore giovanile che era così stimato e di cui si riteneva che la società avesse grande bisogno.
Ebrei e pervertiti sessuali furono spesso rappresentati come persone deboli, prossime alla morte, precocemente invecchiate: nel teatro tedesco e nelle opere di Balzac
gli ebrei sono quasi sempre dei vecchi; per Schopenhauer l’omosessualità era una funzione vitale della vecchiaia, un modo della natura per evitare che i vecchi concepissero figli.
Nel teatro tedesco, questo stereotipo della vecchiaia privò gli ebrei della famiglia; solo durante l’Ottocento comparvero dei figli di ebrei, ma sempre già cresciuti perché i bambini avrebbero smentito lo stereotipo della solitudine.
All’ebreo, come anziano, veniva quindi negata l’integrazione nella vita borghese, mentre l’isolamento dell’omosessuale era considerato un dato di fatto; come diceva Oscar Wilde: “La gente viziosa è sempre vecchia e brutta”.
La masturbazione, che nel XIX secolo era considerata il fondamento della gran parte dei vizi, portava a orrende deformazioni del corpo e al completo esaurimento nervoso: in questo modo, a metà del XIX secolo,
Ambroise Tardieu, rappresentava gli omosessuali.
Quel che era necessario era poter riconoscere e individuare facilmente colui che derogava dagli stereotipi in modo da poterlo punire o allontanare dalla società: l’ebreo andava isolato, il malato di mente rinchiuso, l’omosessuale condannato dalla legge.
Esaurimento era sinonimo di nervosismo, di conseguenza ebrei, omosessuali, malati di mente venivano raffigurati in costante movimento: più o meno tutti, si riteneva si comportassero secondo l’iconografia dell’isteria, con relative smorfie e contorsioni, come era stata divulgata dallo psichiatra francese J.M. Charcot, negli anni ottanta dell’Ottocento.
L’esaurimento era un disordine morale e fisico, un segno di debolezza e di mancanza di volontà la cui causa si riteneva dipendesse dalle aberrazioni sensuali prodotte da cervelli spossati.
I decadenti, ad esempio, ben rappresentavano questo stereotipo e costituivano sicuramente una minaccia alle richieste che la società industriale avanzava: di fronte a un così rapido cambiamento era indispensabile la stabilità.
Per molti medici e per molti razzisti queste deviazioni dalla norma erano causate dall’arrendevolezza alla modernità ed ebbe grande diffusione l’idea che ogni malattia di questo tipo portasse ad un’altra, così vari sessuologi sostenevano che la modernità portasse all’omosessualità oppure che i consanguinei e i genitori degli omosessuali soffrissero a loro volta di turbe psichiche mentre agli ebrei fu associato normalmente il nervosismo.
Questa tradizione relativa agli ebrei aveva origini remote: in pieno Illuminismo si sostenne che un ufficiale prussiano convertito al giudaismo fosse affetto da infermità mentale; in ogni caso abbandonare deliberatamente la società faceva sorgere il sospetto di infermità mentale, mentre l’esclusione per nascita o per tendenze sessuali implicava la considerazione di spirito inquieto.
Ne fu un esempio Karl Heinrich Ulrichs: fu dichiarato malato di mente da un testo prussiano di medicina legale poiché, nel 1864, fu il primo a chiedere la fine della persecuzione degli omosessuali in Germania; questo tipo di uomini rappresentava un “fenomeno sessuale”, spesso associato a mendicanti, criminali e fanatici religiosi e fu spesso descritto nei libri che sostituirono il vecchio “scrigno delle curiosità”.
Il razzismo fece buon uso dell’accusa di pazzia che proiettò su tutti i tipi di estranei e quando li scoprì, invece, nella razza dominante, la utilizzò per rilevare quel processo di degenerazione che, evidentemente era in atto, e che doveva essere assolutamente fermato.
L’ambiente naturale di tutti gli estranei era la grande città, come si è già visto a proposito degli omosessuali: dalla fine del secolo la città era diventata la metafora dell’innaturale, ma già in precedenza Balzac ed Eugène Sue avevano, nelle loro opere, evidenziato l’artificiosità della città e la rottura con la natura.
Anche in questo mise il suo sigillo d’approvazione la medicalizzazione che garantì l’immutabilità del pensiero scientifico ad immagini puramente soggettive.
La normalità necessitava della conservazione di un rapporto con le forze autentiche ed immutabili della natura, ma questa necessità di radicamento della borghesia la poneva contro le sue stesse origini poiché a spaventarla era proprio ciò che aveva creato essa stessa: le strade e gli edifici imponenti e la massa anonima.
La borghesia, per reagire a questo, tentò di stabilire una continuità storica: i palazzi cittadini imitarono le cattedrali gotiche e le ville private i palazzi del Rinascimento, ma fu la forza stessa della natura, salutare simbolo dell’autentico e dell’immutabile che fu utilizzata per rafforzare il controllo dell’uomo su un mondo che sembrava continuamente sull’orlo del caos.
Questo utilizzo della natura si diffuse nel XIX secolo grazie al diffondersi dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, per la necessità degli individui di avere uno spicchio di eternità e mantenere così il proprio orientamento.
Nazionalismo, razzismo e società borghese cercarono nella natura le proprie origini in modo da poter condividerne l’immutabilità.
La natura non conosceva vizio e questo principio è utile per capire il perché delle discussioni dei sessuologi circa l’esistenza di animali omosessuali: la loro eventuale esistenza avrebbe macchiato la natura di una imperfezione oppure avrebbe fornito agli omosessuali un potente argomento contro la rispettabilità.
Durante il XIX secolo furono costantemente associate immoralità e cospirazione perché, ovviamente, i complotti non potevano che allignare nelle grandi città dove vivevano e si associavano le persone ostili alla società.
Le teorie cospirative non erano una novità: già durante la rivoluzione francese i tedeschi avevano accusato i francesi di derubarli della loro integrità morale, mentre alcuni inglesi avevano sostenuto che la Francia avesse inviato dei ballerini oltremanica per corrompere la nazione con i loro movimenti lascivi; Proust parlava degli omosessuali come di una massoneria più potente ed estesa di quella classica e Maximilian Harden, parlando di una congiura omosessuale nel governo imperiale tedesco, usava termini che si potevano ritrovare in qualsiasi trattato sugli ebrei.
Due furono i complotti che si diffusero particolarmente: quello degli omosessuali per sovvertire la società e quello giudaico mondiale; entrambe queste categorie erano considerate, dai loro nemici, come uno Stato nello Stato.
Il razzismo approfittò ancora una volta di questi elementi, come degli stereotipi elaborati autonomamente da altri, per fissare nella loro condizione di immutabilità le razze inferiori e i degenerati razziali: i sovversivi dell’ordine borghese erano l’antitipo dell’ideale, cioè di gioventù, energia e bellezza, ovvero del tedesco o dell’inglese con i bei lineamenti.
Questa vera bellezza era il contraltare delle passioni più basse e si poneva in netto contrasto con le cose materiali tanto che, nel 1896, qualcuno affermava che vi fosse un abisso impossibile da colmare tra la bellezza perfetta e il desiderio di avere rapporti sessuali con essa.
Bellezza umana senza sensualità, questo richiedeva la rispettabilità, bellezza che era in sé segno di superiorità morale e spirituale.
Nietzsche condannò duramente questo ideale di bellezza rispettabile e vi oppose il culto del corpo in tutta la sua sensualità e in tutti i suoi ardori, qualunque ne fossero stati gli esiti, tuttavia ne condivise un presupposto fondamentale quando affermò che era “pura follia credere che si possa vestire uno spirito leggiadro con un corpo deforme”; anche lui subì il fascino della scultura greca anche se cercò di superare il nudo rispettabile attraverso il superuomo.
L’ideale della bellezza, quale simbolo di autocontrollo, rafforzò la dote purificatrice della natura nei ritratti degli eroi nazionali come Walter Flex, Rupert Brooke o nel monumento ai caduti dell’università di Monaco, copia della scultura del giovane doriforo di Policleto.
Più tardi Leni Riefenstahl elaborò ancora una volta questo rapporto tra bellezza e natura ad esempio nel film sulle Olimpiadi del 1936, Festival della bellezza, in cui alternava inquadrature della bellezza naturale e corpi bellissimi; questi ultimi erano l’apoteosi della virilità, giovani, virili, vigorosi e casti; il razzismo per diffondere il tipo ideale ariano sfruttò un terreno consolidato sostenendo uno stereotipo sul quale si fondava già l’ordine esistente.
Se gli individui sani e normali e loro soltanto potevano essere belli, a loro era riservato ineluttabilmente il vivere in armonia con la natura: un energico e vigoroso omosessuale era impensabile così come era considerata una contraddizione un bell’ebreo, anche se la bella ebrea, invece, continuava ad ossessionare l’immaginazione, grazie all’Ivanohe di sir Walter Scott, poiché essa esprimeva la stimolazione sessuale mediante l’esotico e il misterioso.
La descrizione dell’ebreo come deforme continuò fino a giungere ad Auschwitz dove il dottor Mengele visitava i giovani ebrei che sembravano coincidere con il modello di bellezza consolidato per scoprirvi qualche aspetto deforme, così necessario al razzismo. Anche col razzismo la distinzione tra normale e anormale fu portata alla sua logica conclusione: come la scienza medica aveva, da subito, legittimato i modelli di rispettabilità, così ora vi erano alcuni medici che cercavano di dare basi scientifiche al razzismo.
Il tentativo di omogeneizzare gli estranei, tuttavia, non riuscì mai completamente come dimostra il caso degli ebrei e degli omosessuali; questi ultimi furono accusati di sterilità, cioè di non fornire alla nazione i suoi futuri soldati e operai, accusa molto grave in un periodo in cui si temeva molto la caduta del tasso di natalità; gli ebrei, invece, non furono accusati di essere omosessuali ma di nutrire un’incontrollata pulsione sessuale verso le donne gentili quindi vennero considerati dei corruttori delle madri della nazione, che impedivano la nascita di figli sani; essi furono anche accusati di avere inventato il sistema di controllo delle nascite, un altro modo per distruggere la razza ariana.
Gli ebrei, non bollabili come omosessuali, furono però accusati di diffondere l’omosessualità per raggiungere il predominio culturale in Germania: questo argomento originò dall’ossessione nazista per il decadentismo che era considerato il simbolo dell’anormalità, riprendendo un tema già dibattuto anche dai medici tra i quali qualcuno, ad esempio Max Nordau, aveva sostenuto che l’arte moderna fosse il prodotto di nervi scossi e strabismo.
L’omosessualità, associata a figure quali Oscar Wilde e al permissivismo della Berlino dell’epoca di Weimar, fu identificata come una delle cause della degenerazione che minava nel contempo rispettabilità e creatività.
Questo parallelo tra rispettabilità e creatività omogeneizzò ulteriormente gli estranei nonostante il fatto che specifiche accuse di perversione sessuale non fossero dirette soltanto contro gli ebrei; vi furono alcune eccezioni e tra queste la più significativa fu quella di Magnus Hirschfeld, ebreo omosessuale e promotore del movimento di emancipazione omosessuale: lui e l’istituto da lui fondato furono bersaglio costante dei razzisti tedeschi.
Anche Walter Rathenau, il più importante politico ebreo durante e dopo la prima mondiale, fu accusato, ogni tanto, di essere un sadico e un omosessuale; gli ebrei, tuttavia non erano considerati un pericolo per la società per la loro presunta omosessualità, quanto piuttosto per le loro propensioni perverse anche se eterosessuali; in effetti sarebbe risultato difficile accusare gli ebrei di vizi omosessuali poiché la loro vita familiare era spesso ammirata anche dagli stessi antisemiti e non era facile ignorarlo sebbene fosse ben presente, nel teatro tedesco, lo stereotipo dell’ebreo vecchio e isolato.
Gli ebrei, a differenza di altri emarginati, incarnavano alcune virtù tipiche della borghesia, cosa che sconcertava i razzisti che, infatti, li accusarono di attentare alla vita familiare degli altri e dovettero creare, a questo scopo, la distinzione tra borghesia tedesca e borghesia ebraica, in modo da poter considerare comunque estranei gli ebrei che si adeguavano con successo alla vita borghese.
In un periodo in cui i medici si erano fatti custodi della rispettabilità, essi si occuparono anche di definire le differenze tra questi due gruppi di estranei, ebrei ed omosessuali: così anche gli ebrei divennero argomento di discussione medica.
Si riteneva che essi fossero soggetti a malattie mentali e in particolare a nervosismo e nevrastenia: Jean Martin Charcot, ad esempio, sosteneva che gli ebrei fossero predisposti alle malattie nervose per una debolezza congenita del loro sistema nervoso, mentre Krafft-Ebing attribuiva i disturbi nervosi all’incrocio tra affini dovuto al volontario isolamento; sempre secondo quest’ultimo queste malattie, tipiche degli ebrei, portavano al fanatismo religioso e a una sensualità più intensa.
Questi medici e specialmente Charcot ritenevano anche che le donne soffrissero di isteria a causa di un sistema nervoso più debole rispetto a quello dell’uomo; ci fu chi ne approfittò di questo per proiettare caratteristiche femminili sul popolo ebreo come fece Otto Weininger, ebreo e razzista, in odio alla sua stessa razza.
Ancora una volta la virilità era sinonimo di normalità e quindi di autocontrollo e di quell’armonia tra corpo e mente che piaceva tanto alla società borghese; chi non era maschio doveva in qualche modo essere un malato.
La medicalizzazione degli ebrei legittimò lo stereotipo ed il razzismo ne approfittò per dare dignità scientifica all’emarginazione: gli ebrei non potevano essere curati perché il loro nervosismo era connaturato alla razza; se è vero che Charcot e Krafft-Ebing erano stati prudenti e avevano affermato che la malattia ebraica era più una tendenza che un dato assoluto e avevano avanzato la possibilità di una terapia, per i razzisti l’ebreo sano era una contraddizione in termini che doveva perciò essere fissato una volta per tutte nei canoni dell’irrequietezza, dell’assenza di radici e della mancanza di virilità che la rispettabilità tanto temeva.
Lo studio medico degli ebrei fu comunque marginale ed ebbe valenza secondaria rispetto ad altre accuse rivolte loro; per gli omosessuali, invece, la medicalizzazione fu di importanza fondamentale: essi divennero un oggetto di studio e di analisi medica dai quali non c’era via d’uscita.
L’omosessualità era una malattia come le altre, acquisita secondo la scienza medica, tramite la masturbazione o il contagio da cattivo esempio anche se, verso la fine del XIX secolo, si cominciò a riconoscere anche un’omosessualità congenita: se l’omosessuale poteva essere curato, questo era precluso in radice agli ebrei, mentre rimase per i razzisti il dilemma degli omosessuali, che pur essendo quasi tutti ariani, attentavano alla salute della nazione.
Se gli omosessuali per natura dovevano essere sterminati, gli altri potevano essere curati col duro lavoro: “Das Schwarze Corps” li considerava degli scansafatiche egoisti che, volendolo, avrebbero potuto rientrare nella normalità.
La cura dei malati di mente, nell’Ottocento, fu per certi aspetti simile a quella degli omosessuali: si pensava che ristabilendo il controllo delle emozioni il malato di mente avrebbe recuperato anche una normale espressione facciale; il duro lavoro fu molto importante per salvare, in alcuni casi, i malati di mente dall’eutanasia praticata dai nazisti; è abbastanza ovvio che gli ebrei fossero considerati improduttivi e incapaci di lavorare onestamente e quindi incurabili.
I nazisti concessero agli omosessuali una possibilità per correggersi, il rifiuto o la mancata conformazione ad esso avrebbe comportato lo sterminio, esattamente come per gli ebrei; se alla fine si salvarono molti più omosessuali che non ebrei ciò dipese dal fatto che, in barba agli sforzi fatti dalla medicina legale, riconoscere i primi restava molto difficile mentre per i secondi fu fatale l’appartenenza a una comunità religiosa che conservava liste dei propri membri.
L’accusa di confondere i sessi fu mossa anche agli ebrei però fu necessario trasporla dal piano pratico a quello teorico visto che veniva loro attribuita aggressività nei confronti delle donne; fu allora necessario accusarli di mancanza di virilità a causa del nervosismo, dell’incapacità di controllare le passioni, del modo di trattare le donne come beni da acquistare o da vendere.
Ci fu un’opera, del 1900, che influenzò Adolf Hitler e molti altri razzisti: Sesso e carattere di Otto Weininger.
L’opera è dedicata alle caratteristiche dei sessi, l’autore fa propria l’opinione di Freud sulla bisessualità dei bambini e arriva a dimostrare che ogni uomo possiede componenti maschili e femminili, tuttavia egli distingue nettamente maschi e femmine cui attribuisce caratteristiche completamente diverse: la donna si preoccupa esclusivamente della propria sessualità mentre l’uomo conosce la scienza, il commercio, la religione e l’arte; le donne rimangono bambine per tutta la vita, non hanno possibilità di crescita.
Per Weininger gli ebrei hanno preponderanti qualità femminili anche se sono maschili nella pratica sessuale, la logica conclusione è che ciò che conta dell’uomo è la moralità cosa da cui restano escluse, appunto, le donne e gli ebrei che conoscono solo la passione sessuale.
Weininger era un misogino e razzista che considerava le donne e gli ebrei come stati fisiologici e perciò incurabili.
Le sue opinioni non erano debitrici del nazionalismo, probabilmente erano invece legate alla paura della propria bisessualità, ciò nonostante esso fu abbondantemente utilizzato dal nazionalismo, in un periodo in cui discutere teoricamente di sessualità stava diventando un atteggiamento rispettabile e chi simpatizzava per il razzismo vi trovava un argomento sia scientifico che emotivo alla moda.
Questo libro ebbe particolare successo anche perché, ovviamente, criticava anche la cultura contemporanea, pericolosamente orientata verso l’anarchia e la decadenza e questo era motivo di sicura attrazione alla quale si aggiunse anche il fascino dato dal suo odio verso se stesso come ebreo dell’autore ed il suo suicidio subito dopo la pubblicazione.
Weininger non trascurò nemmeno gli omosessuali che, come le donne e gli ebrei, mancavano di creatività e della capacità di apprezzare quanto c’è di autentico nella vita, chiusi nell’effimero di un mondo artificiale che denotava un temperamento criminale.
Questo autore non fu l’unico ad associare gli omosessuali ai criminali e queste analogie ebbero successo nell’equiparazione di tutti gli estranei: anche gli ebrei appartenevano a una razza criminale e i razzisti si richiamarono alla storia per dimostrarlo.
Non poterono, però, fare altrettanto per gli omosessuali che erano privi di un passato che ne testimoniasse la criminalità: per loro fu necessario ricorrere alla medicina, invece che alla storia.
Per gli ebrei si utilizzarono le bande di ladri che avevano lavorato con le analoghe tedesche, durante il XVIII secolo, e si sfruttò la persistenza di un gergo ebraico e yiddish tra i criminali tedeschi per dimostrare che gli ebrei erano ladri nati
La psicologia criminale lombrosiana, elaborata negli anni 70 dell’Ottocento, fu di aiuto all’accusa di criminalità ebraica: i criminali abituali erano facilmente riconoscibili per certe anomalie somatiche, ad esempio, secondo
Lombroso, le orecchie a sventola sono tipiche dei criminali, dei selvaggi, dei primati e, aggiunsero i nazisti, degli ebrei.
Senza dubbio ebrei ed omosessuali erano considerati dei cospiratori contro la società e nemici della rispettabilità, ma l’accusa di criminalità rivolta agli ebrei ne rese più facile la diffamazione: di questa accusa i razzisti fecero grande uso e cercarono di sfruttarla in maniera più efficace possibile.
Lombroso sosteneva che la criminalità fosse una componente immodificabile della fisiologia del criminale abituale che quindi doveva essere giustiziato: la morte dell’estraneo è sempre stata una costante del pensiero di chi faceva parte della società, come testimoniano il giovane masturbatore in agonia di Bertrand, gli ebrei prematuramente vecchi, gli omosessuali esausti e rovinati dalla malattia, i malati di mente malinconici.
La morte degli estranei doveva essere diversa da quella dei rispettabili borghesi poiché in essa doveva trasparire lo stigma dovuto al rifiuto delle convenzioni sociali.
Il XIX secolo vide l’affermarsi di un certo sentimentalismo verso la morte delle opere letterarie e figurative: essa non possedeva più una rigorosa lezione da insegnare, come era stato durante l’illuminismo, ma si concretizzò nel culto romantico della malinconia; i fiori divennero una componente essenziale dei riti funebri e la morte borghese fu sottoposta al rituale caratteristico del letto di morte: romanticamente il moribondo giace nel proprio letto, in una stanza poco illuminata, circondato dalla famiglia, che benedice i figli e li rassicura che durante la sua vita essi hanno compiuto il loro dovere nei suoi confronti e che perciò non devono nutrire rimpianti; una vita rispettabile doveva terminare con una morte tranquilla.
Nel 1800-1801 l’Institut de France propose un concorso per scegliere quale funerale fosse preferibile, in quella sede ci fu chi propose, come Pierre Dolivier, un ex prete, di istituire una giuria che avrebbe dovuto decidere di ogni persona se in vita fosse stato utile; nel caso fosse stato giudicato vizioso il suo corpo sarebbe dovuto finire in una fossa comune, con esequie senza cerimonia.
Dolivier, che era un illuminista, non fu l’unico a sostenere questa idea della separazione dei viziosi dopo la morte, così come si erano separati volontariamente dalla società in vita.
I razzisti sfruttarono l’immagine del cimitero ebraico per sottolineare la differenza tra i gentili e gli ebrei: fu utilizzato il cimitero ebraico di Praga
per porlo in contrasto con gli ordinati cimiteri cristiani; il cimitero cristiano moderno, nato nel tardo XVIII e nel primo XIX secolo, quando le sepolture vennero spostate fuori dalla città, nel suo susseguirsi ordinato di prati, fiori e tombe, ricordava il sonno tranquillo del rispettabile borghese; al contrario il disordine dei cimiteri ebraici testimoniava quell’irrequietezza che persisteva nella morte come lo aveva fatto nella vita.
Ebrei ed omosessuali, privi d’anima ed egoisti, non potevano morire come i borghesi, a loro doveva mancare quella serenità che segnava un tranquillo trapasso: agli omosessuali mancava la famiglia che permettesse la messa in scena del letto di morte, la religione materialista degli ebrei e il loro nervosismo impedivano, invece, la trasfigurazione romantica della propria morte.
La morte borghese si poneva anche in contrasto col declino della forza vitale dei decadenti: la morte come esperienza dei sensi era considerata blasfema dall’ordine costituito e ritenuta tipica dei viziosi; il decadentismo fu associato agli artisti d’avanguardia e agli omosessuali poiché l’immagine del giovane esangue che muore lentamente in modo leggiadro era inconciliabile con l’ideale della virilità.
In ogni caso il vizio andava separato dalla virtù e chi viveva come estraneo doveva patire una morte brutta e solitaria:
Ahasverus, l’ebreo è condannato alla solitudine e distrugge tutto ciò che avvicina, l’ebreo Veitel Itzig, protagonista di Soll und Haben, popolare romanzo tedesco di Gustav Freytag, annega in un torbido fiume, per gli ebrei non poteva esserci conforto nemmeno nella morte.
In Italia il giornalista Paolo Orano, nell’opera Gli ebrei in Italia del 1937, metteva in contrasto la presunta paura della morte, il pacifismo, l’avarizia e la mancanza di passioni elevate dell’ebreo con lo spirito cristiano romano.
La morte degli estranei era simbolo della loro stessa vita così che anche questa fu utilizzata per separare ulteriormente la società borghese da chi non vi apparteneva ed il modo di morire degli estranei divenne uno dei tanti fattori che prepararono la strada alla cosiddetta “distruzione della vita spregevole” cioè alla strategia che la Germania nazista, degna figlia in questo del razzismo, fece propria.
La rispettabilità e la divisione del lavoro tra i membri della società subirono delle sfide enormi, durante il XIX secolo: i cambiamenti in corso, l’accelerazione dei tempi e la possibile perdita del controllo sulla vita di ognuno furono i problemi sui quali concentrò la propria attenzione il razzismo che, richiamandosi alla storia e alla natura, cercò di fermare il tempo e, insieme, di dare un passato razziale utilizzabile ed un frammento di eternità che avrebbe garantito un sostegno a uomini e donne sempre più smarriti.
La figura dell’estraneo fu fondamentale perché anticipatrice e quindi ammonitrice delle conseguenze cui sarebbe andata incontro una società che avesse abbandonato il controllo e la ricerca di un ideale di rispettabilità a protezione.
L’incapacità di controllare gli ardori sessuali fu considerata una mancanza di autocontrollo tipica dei nemici: nel pensiero razzista i nemici della società e la razza inferiore erano equiparati poiché solo la razza superiore era dotata dei comportamenti e degli usi e costumi della società esistente.
Se nazionalismo e rispettabilità da un lato e razzismo dall’altro ebbero lo stesso atteggiamento nei confronti dell’estraneo il razzismo, tuttavia, eliminò ogni forma di pur lieve tolleranza che c’era stata nei secoli XIX e XX e fissò in termini di immutabilità il conformismo verso la rispettabilità e la nazione.
Se è vero che gli estranei furono in gran parte uniformati, tuttavia gli ebrei e gli omosessuali furono ritenuti più pericolosi dei criminali e dei malati di mente perché la loro sessualità era un’ulteriore arma contro la società: essi erano considerati dei potenziali rivoluzionari poiché ponevano in dubbio i fondamenti stessi della società borghese e della rispettabilità, suo strumento di difesa, che, invece, il razzismo intendeva tutelare a tutti i costi.
L’atteggiamento verso l’estraneo fu talmente penetrante che molte vittime sembravano accettare il proprio stereotipo, cercando di integrarsi nell’ordine costituito, ma questa integrazione implicava accettare non solo lo stile di vita borghese ma anche l’esistenza stessa dello stereotipo dell’estraneo, cioè di se stessi, un circolo vizioso da cui non sembrava esserci via d’uscita.
Si è visto come gli omosessuali cercarono di integrarsi esibendo la propria virilità e l’attitudine alla professione militare; gli ebrei non furono da meno e tentarono di accentuare la rispettabilità e il proprio sentimento patriottico che, peraltro, fece nascere tra loro una tradizione di liberalismo e tolleranza che, in Germania, resistette sino alla fine.
Il nazismo pose fine a qualunque tentativo di integrazione da parte degli estranei cosa che non avvenne, invece, in Inghilterra anche se, pure qui, continuò a rimanere essenziale e fondamentale la distinzione tra i sessi e tra normalità e anormalità.
Il nazionalsocialismo esasperò tutti gli elementi sino a qui analizzati perché seppe mettere in rapporto gli aspetti sino ad ora esaminati: rispettabilità, nazionalismo, virilità, ideale femminile, la riscoperta del corpo, razzismo; esso fu comunque uno degli aspetti del fascismo europeo e, quindi, in questo contesto sarà ora da approfondire.