Sono trascorsi 15 giorni dall’intervento che il mio amico ha subito; era il 7 febbraio e mi trovavo a Santiago di Compostela e a La Coruña.
Non ho ancora avuto possibilità di vederlo di persona e questo mi angustia un po’ anche se so che è giusto e doveroso rispettare i suoi tempi, non i miei.
Ci sentiamo tuttavia due volte al giorno, via telefono, per brevi colloqui; si avverte la fatica del riprendere a parlare ma noto anche i progressi che mi riempiono di fiducia.
Non sono in grado di prevedere l’avvenire ma ho la certezza che le cose procederanno bene e che da parte mia non c’è altro da fare che attendere e sostenere.
A fronte della difficoltà di tipo medico, in me si accende una sorta di riflesso condizionato che mi viene da una consuetudine famigliare: quando uno ha necessità tutte le forze dei famigliari si attivano e mettono a disposizione di colui che ha bisogno.
Pratica buona e lodevole di cui una serie di componenti della mia famiglia ha avuto modo di usufruire ed a cui mi sono sottratto io, con l’intervento al naso, perché non volevo gravare su nessuno, reputandolo un intervento poco invasivo o perlomeno solo temporaneamente invalidante.
Per questo amico si è attivato lo stesso tipo di pensiero, solo nel pensiero poiché non c’è stata possibilità di attuarlo concretamente nell’assistenza ma questo poco cambia.
Noto che questo pensiero ricorda molto l’idea di chiesa di papa Francesco come “ospedale da campo”: questo significa che la malattia deve essere curata ed il malato sostenuto.
Ma quel che è interessante viene dopo: nel momento della guarigione, anche in famiglia, cessano le attenzioni e tutto torna nella normalità; a questo vorrei porre rimedio.
Quando c’è sofferenza l’orizzonte è la guarigione che è al tempo stesso la prospettiva ed il limite; ma una volta venuto meno questo potente collante, che fare?
In questi giorni sono rimasto assente dal lavoro, per motivi vari, e mi sono accorto che non ci ho minimamente pensato: del lavoro non mi è importato nulla.
Di fronte ad un orizzonte che trovo particolarmente angusto e senza prospettiva mi sono trovato a pensare e dedicarmi ad altro; ho lasciato cadere la logica del “paese” o, la definisco io, del “pollaio” per occuparmi di questioni di maggior interesse.
Cosa ha a che vedere questo col mio amico ammalato?
Credo che il legame sia dato dall’avere cura.
Avere cura che il proprio orizzonte non si rinchiuda nel pollaio del chiacchiericcio, nella consuetudine e nell’ospedale da campo.
L’assistenza è fondamentale ma serve solo e fintanto che c’è necessità, dopo di che è una modalità da abbandonare.
L’amicizia è come il vino, pura metafisica: esiste solo se è un surplus cioè un’eccedenza di beni rispetto alle quantità, un’eccedenza non solo quantitativa ma qualitativa, come accade per il vino rispetto all’uva.
Aspetto il mio amico, facendo da lontano quel poco che posso, in attesa fiduciosa di poter produrre, nel prossimo futuro, champagne produrlo e degustarlo ovviamente).
Parma, 22 febbraio 2017, festa della cattedra di san Pietro