Pomeriggio ottimo, dopo un ottimo pranzo a base di paella fidentina.
Il tempo è primaverile, in barba al calendario ed invita ad uscire, la meta è a portata di mano, il castello di Scipione.
Scipione non è il mio amato cardinale vescovo di Sabina, il famoso cardinale Scipione Borghese, ma una assai meno conosciuta amena località sull’appennino parmense, nei pressi di Salsomaggiore.
In questa collina sorge un castello di proprietà della famiglia Pallavicini, che tuttora lo abita stabilmente, il castello di Scipione.
È la sempre ottima Silvia Sangiorgi che propone questa meta, proposta ben accolta da tutti, anche dall’ospite che ancora non conoscevo, il nipote Davide.
Questo è un giovanotto timido timido, dai biondi capelli ed un viso pulito eppure da modello decadente, molto cortese e simpatico.
Veniamo, dunque, al castello di Scipione, di proprietà di una famiglia che vanta una nobiltà di durata tale da perdersi nelle nebbie del tempo.
I Pallavicini sono stati ghibellini, in amicizia col ducato di Milano, signori dello Stato Pallavicino che ha spaziato dal Po all’Appennino, fino a quando papa Paolo III Farnese non ha pensato bene di creare il Ducato di Parma e Piacenza per la propria progenie.
Un siffatto progetto non poteva incontrare il favore dei Pallavicini che, infatti, hanno partecipato, ci racconta la guida del castello, alla congiura che portò all’assassinio del primo duca, Pier Luigi Farnese, personaggio di cui ho già trattato.
La potenza farnesiana era troppo forte e lo Stato Pallavicino finì, col tempo, inglobato nel Ducato di Parma e Piacenza.
Come tutti i castelli, anche quello di Scipione sembra avere il suo fantasma: si tratterebbe, se non ho capito male, di Giangirolamo Pallavicino, ucciso dai parenti, nel cortile del castello, poiché aveva donato i suoi beni alla moglie, estromettendoli dall’asse ereditario, il 16 ottobre 1536.
Quella del fantasma è una questione interessante: la credenza nei fantasmi, almeno quelli di questo genere, non è cattolicamente ortodossa; per il cattolicesimo, infatti, ogni atto umano giunge a una conclusione.
L’idea del purgatorio, sviluppatasi a partire dall’antichità ma giunta a maturazione nel medioevo, altro non è che una possibilità offerta a chi sulla terra non ha potuto giungere a una conclusione soddisfacente.
Ma il purgatorio non è eterno, è piuttosto quel momento in cui l’invitato si sistema l’abito di nozze che aveva rovinato in vita senza riuscire a rammendarlo; quello che è definitivo è l’inferno, in cui i giochi sono chiusi per sottrazione volontaria dell’invitato alla festa di nozze, come il paradiso, che prevede la partecipazione alla festa con l’abito già sistemato.
Il fantasma, vittima di una violenza spesso vissuta come un tradimento, sfugge a questa logica: egli torna periodicamente sui suoi passi, nel luogo ove è avvenuto il crimine.
È curioso che non sia il carnefice a tornare, senza pace, nel luogo ove il delitto è stato compiuto: logica vorrebbe che fosse questo a pagare con l’inquietudine eterna, non l’incolpevole vittima.
Dunque perché la vittima torna sul luogo del delitto, ripercorre i passi già compiuti quando era in vita, condannato (da chi?) ad una eterna ripetizione (di cosa?); ricordo, per inciso, che lo studio dello psicoanalista (ovviamente quando possibile) è strutturato in modo tale da non far coincidere entrata ed uscita poiché non si dà mai il caso che uno torni sui propri passi, salvo nella patologia.
Eterno ritorno che richiama alla memoria il fin troppo noto ma sconosciuto ritorno del rimosso, cioè la restituzione del debito con interessi che la banca chiede alla scadenza del finanziamento.
Un ritorno che è memoria, monito e quindi minaccia perché il giudizio, evidentemente, non è giunto a conclusione.
La vittima resta lì, a turbare i sonni dei viventi, per ricordare loro che è stato commesso un tradimento; di solito la vittima è un potente ed i fantasmi, tradizionalmente vivono nei castelli, i luoghi del potere civile.
Quali conclusioni trarre?
Il potente di turno teme per il suo potere e mantiene vivo, come proiezione e ricordo, il fatto che il potere ottenuto, anche quando legittimamente ereditato, è risultato di un atto violento.
Egli sa che deve temere per la propria vita in quanto potente perché è nella logica delle cose che altri vogliano insidiarlo per scalzarlo: il fantasma è la proiezione dell’idea che homo homini lupus, e che questo deve essere tenuto a bada dalla civiltà, ma una civiltà fondata sull’esercizio della forza.
Forza legittima, quella che serve alla difesa dei confini e alla tutela dell’ordine pubblico, ma esposta all’arbitrio di chi è più potente o astuto o infingardo traditore.
Il potente sa di essere invidiato, come il padre primordiale, ritenuto possessore di tutti i beni, da cui i figli dell’orda sono esclusi e quindi, desiderando prenderne il posto, pericolosi.
Venuta meno la turbolenza dei tempi passati, il fantasma resta comunque come testimonianza minacciosa dell’invidia.
Né è possibile che scompaia, avendo la sua origine nel credere vero un inizio, quello del padre primordiale, che è tanto mitico quanto falso: l’inizio non è, salvo rari casi, una tragedia, ma la civiltà si fonda e mantiene sul fondamento mitico di una tragedia primordiale.
Parma, 1 novembre 2017, solennità di Ognissanti