Palazzo Altemps, in piazza di sant’Apollinare è uno dei tanti, tantissimi gioielli di una città unica al mondo, la mia amatissima Roma.
Le due accompagnatrici non hanno avuto obiezioni a visitarlo anche perché, in caso contrario, le avrei strangolate sul posto.
Già il palazzo da solo ha una storia che andrebbe raccontata: voluto da Girolamo Riario, nipote di Sisto IV, signore di Imola e Forlì, uno dei congiurati della famosissima congiura dei Pazzi (a Firenze), insomma un personaggio con cui probabilmente non c’era da annoiarsi troppo.
Dopo vari passaggi di mano, finì in proprietà alla famiglia Altemps, uno dei componenti della quale venne fatto decapitare a 20 anni da un altro papa, Sisto V.
Altre vicissitudini vide il palazzo fino a diventare proprietà dello Stato italiano che l’ha destinato ad essere una delle sedi del Museo Nazionale Romano.
Qui viene documentata l’attività collezionistica che, secondo una moda risalente al Cinquecento, le famiglie importanti dell’Urbe mai trascuravano di coltivare.
Tra i tanti pezzi straordinari, alcuni mi sono rimasti nel cuore; iniziamo dai ritratti: la ritrattistica romana è famosa e non semplificabile in poche battute.
L’origine di questa usanza di effettuare ritratti (e non rappresentazioni a figura intera, come avveniva in Grecia) ho scoperto che deriverebbe dallo ius imaginum, il diritto dei patrizi di esporre, in determinate occasioni, i ritratti degli antenati, tenuti nell’atrio delle loro abitazioni, in armadietti, che venivano aperti solo in determinate occasioni e, in particolare, durante i funerali.
Ne ho trovato un interessante esempio nel Togato Barberini, esposto alla Centrale Montemartini.
Erano vietate le statue, invece, per evitare il culto della personalità, dopo la cacciata dei re e l’instaurazione della repubblica.
Le erme erano, in origine, di cera, ma ben presto vennero sostituite dal marmo o dal bronzo.
Bene, oltre ai ritratti ci sono giocattoli, giochi (i dadi), utensili di uso quotidiano o per funzioni religiose, poi ancora ci sono capolavori di arte funeraria ed una serie di statue che sono una splendore.
Partiamo dalla Statua del Pugile, per passare a quella di Meleagro, copie di originali greci, entrambe di grande bellezza.
Meleagro è un curioso personaggio, un argonauta che uccide il cinghiale calidonio e che muore ucciso dalla madre alla quale aveva a sua volta ammazzato i fratelli (almeno secondo una variante del mito) e tutto per le spoglie di un cinghiale che, per quanto eccezionale, sempre un cinghiale era.
Un altro capolavoro straordinario è il Galata suicida che fa il paio col non meno famoso e splendido Galata morente conservato ai Musei Capitolini.
Anche in questo caso siamo di fronte ad una copia romana di un originale che era stato commissionato dal re di Pergamo, Attalo I per celebrare la vittoria contro i Galati.
Scultura di altissima drammaticità proprio come il Galata morente ma ecco che non c’è riposo, si presenta ai nostri occhi un bel Marte che sovrasta un capolavoro da togliere il fiato: il sarcofago grande Ludovisi.
Questo sarcofago, ritrovato nel 1621, è davvero un’opera straordinaria: viene rappresentata una battaglia tra i romani e, presumibilmente (visto l’abbigliamento) i daci; 4 sono i piani del fronte: i due in basso rappresentano i barbari che sono rappresentati feriti, morenti e cadaveri; nei due superiori i romani che finiscono l’opera di eliminazione dei nemici.
Al centro un generale con la fronte segnata da una x: è questi, ovviamente, il defunto celebrato ed il simbolo sulla fronte lo identificherebbe come un adepto del mitraismo, identificato in un figlio dell’imperatore Decio, Ostiliano (defunto a causa della peste) o Erennio Etrusco, caduto assieme al padre nella battaglia di Abrittus, contro i Goti.
Ogni volto è da osservare con attenzione perché uno è più bello dell’altro.
Ma non è finita, di seguito un bel togato seduto, poi Pan e Dafni, l’acrolito Ludovisi, alcune altre teste colossali di divinità, ed eccoci al famosissimo Ares Ludovisi, considerato una tappa obbligatoria del Grand Tour per le sue qualità artistiche.
A questo capolavoro mise la mani anche il mio amatissimo Gian Lorenzo Bernini che vi aggiunse Cupido, completò il piede destro e rifinì l’intera statua.
Da notare l’elsa della spada, fantastica.
Ma procediamo ancora: Oreste ed Elettra, figli di Agamennone e Clitemnestra cedono il passo ad un bel Guerriero seduto, quindi a Hermes Logios, cioè Ermes Ludovisi, una splendida rappresentazione del dio nella forma di psicopompo (che accompagna le anime nell’oltretomba).
Eccoci ad Ercole, immancabile non trovate?, poi un Satiro drammatico e Dioniso in alcune versioni, tra le quali spicca il Dioniso Ludovisi, coi capelli lunghi quasi da donna.
Mi dimentico sicuramente qualcosa, il che è la dimostrazione che i musei vanno visitati e goduti personalmente, non c’è artificio virtuale che possa sostituirli.
Sempre a Palazzo Altemps ho trovato un’esposizione di opere di Filippo de Pisis; non ho compreso il senso di questa miscela di opere sebbene non mi sia dispiaciuta.
Non è autore tra i miei prediletti ma alcune tele mi sono piaciute, in particolare le nature morte, mentre non ho apprezzato i ritratti maschili, tutti a mio parere, connotati da un disturbante (per me) velo di ambiguità.
Un curioso san Sebastiano, sorridente, ha attirato la mia attenzione sia per l’irritualità della rappresentazione sia perché a questo santo sono particolarmente legato, essendo protettore di una certa categoria di lavoratori che ben conosciamo.
Chiudo riprendendo un’opera particolare, il ritratto dell’imperatore Lucio Vero, una bella erma il cui busto risale al Seicento mentre il ritratto è datato 160 d.C.
Perché riprendo quest’opera? per via del mio capo che ha iniziato a chiamarmi col nome dell’imperatore, anzi, primo caso nella storia di Roma, co-imperatore, assieme a Marco Aurelio.
Si tratta di un imperatore che rimase un po’ in secondo piano rispetto a Marco Aurelio, sebbene tra i due abbia sempre regnato la concordia (e diversi interessi), che sia un messaggio subliminale del mio capo?
Dopo la morte, precoce, fu divinizzato con il nome di Divus Verus Parthicus Maximus: i romani erano generosi nelle onorificenze, si potrebbe dire che non badavano a spese né si ponevano limiti.
Roma, 3 luglio 2020 festa di san Tommaso apostolo