La nascita del nazionalsocialismo è il titolo del X capitolo del libro che George L. Mosse ha dedicato al razzismo in Europa; assistendo a certi disordini connessi a manifestazioni sportive di questi giorni, si giocano gli europei di calcio in Francia (e mi vanto di essere uno tra quelli che si sono persi tutte le partite), il volume di Mosse si conferma uno strumento utilissimo per la comprensione dell’umana stupidità che per essere stupida non è, tuttavia, improduttiva di effetti, com’è ovvio dannosi.
La vicenda Brexit, con l’uccisione di una deputata laburista alcuni giorni fa, è un’altra faccia di un problema evidentemente non ancora risolto, quello della pacifica convivenza all’interno di una organizzazione politica e sociale sovranazionale.
Ma eccoci al riassunto del capitolo, sempre in ritardo rispetto ai tempi che vorrei, ma altre e gravose vicende tengono impegnati i miei momenti liberi, non ultimi quelli legati alle vicende politiche dei comuni che un tempo facevano parte dell’unione per cui lavoravo.
Metterei ad esergo di questo riassunto l’inno nazionale di Mameli che, per certi versi, era già bello che intriso di nazionalismo, d’altronde esaltava la nascita di una aspirante nazione, poi aspirante grande potenza europea (vedi prima guerra mondiale), infine aspirante e basta.
Dell’inno apprezzo moltissimo, per l’immensa involontaria ironia che la connota, la strofa che dice:
“Amiamoci, uniamoci, l’unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore”.
A leggerla oggi può venire indifferentemente da piangere o da ridere vista la situazione italiana e non solo.
Ma basta, eccoci a Mosse.
I mattoni per costruire l’edificio del razzismo vennero non solo dall’Europa centrale (che fornì le varie componenti della mistica razziale utili per soddisfare l’aspirazione a una vera comunità nazionale e per un organico rapporto con la vita e la politica) ma anche dalla Francia, che verso la fine del XIX secolo sembrò essere il paese ove il razzismo era in grado di assumere un’importante posizione di potere.
Scandali finanziari, corruzione della Terza repubblica, cessione dell’Alsazia-Lorena alla Germania e affare Dreyfus furono sicuramente eventi che favorirono la penetrazione del razzismo in Francia durante gli anni ’80 ma è altrettanto innegabile che vi era già presente un “substrato” favorevole, costituito da una tradizione, soprattutto in campagna, di antisemitismo cattolico che seppure non razzista, tuttavia manteneva caratteristiche di pericolosa ambiguità.
Ebrei, massoni e repubblicani erano il consueto bersaglio del clero francese che, infatti, accusò le forze ostili alla Chiesa e particolarmente gli ebrei del fallimento dell’Union générale, una banca cattolica e monarchica, nel 1882.
La porzione più consistete dell’antisemitismo francese era interessata all’unità nazionale, all’integrazione tra le classi sociali, superando così il conflitto di classe e dissolvendo in questo modo il capitalismo borghese imperante.
Nazionalismo e riforma sociale e politica avrebbero portato ad una più equa distribuzione della ricchezza e ad una maggior partecipazione di ogni classe alla vita politica e sociale della nazione.
Questo fu l’antisemitismo che diede benzina al razzismo francese e che prese il nome (successivamente fatto tristemente proprio da Hitler) di nazionalsocialismo; agli inizi esso significava semplicemente una dottrina politica che intendeva creare un governo sociale e contemporaneamente nazionale.
Contrario al capitalismo esistente ma non ostile alla proprietà privata, il nazionalismo sosteneva una società organizzata gerarchicamente ma con garanzie quali le assicurazioni sociali ed il lavoro per le classi lavoratrici, in opposizione al capitalismo finanziario rappresentato dalle banche e dalle borse valori.
Nel 1870 Edouard Drumont scriveva: «L’espropriazione della società ad opera del capitale finanziario avviene con una regolarità paragonabile alle leggi della natura. Se entro i prossimi cinquanta-cento anni non si fa nulla per arrestare questo processo, tutta la società europea cadrà, legata mani e piedi, nelle mani di poche centinaia di banchieri».
Questo clima culturale comportava l’esclusione degli ebrei dalla vita della nazione poiché essi erano divenuti il simbolo del capitalismo finanziario: l’ebreo usuraio, l’ebreo errante, la saga di casa Rothschild sono state semplicemente alcune tappe di un processo che, culminando nella crisi finanziaria di fine secolo, individuava nei “parassiti” ebrei i responsabili della miseria delle classi produttive lavoratrici.
La contrapposizione tra l’ebreo usuraio e l’onesto lavoratore, ormai consueta, si andava ora innestando sulle tensioni del capitalismo in pieno sviluppo: questa contrapposizione tra sudore della fronte e sfruttamento finanziario fu tipica di tutta Europa ma ebbe in Francia un notevole successo che si estese anche, sebbene saltuariamente, nelle classi subalterne.
Figura di spicco di questo nazionalsocialismo francese fu un ex discepolo dell’utopista Charles Fourier, Alphonse de Toussenel che nell’opera del 1845 “Gli ebrei, re dell’epoca” (“Les Juifs, rois de l’époque”), unificò l’immagine medievale dell’ebreo usuraio col populismo che aveva preso piede nel turbinoso periodo del capitalismo nascente.
La teoria di Toussenel verteva sul controllo mondiale, attraverso la finanza, da parte degli ebrei, ben rappresentati dalla famiglia Rothschild; le origini di questo autore erano nella campagna, come quelle di altri famosi socialisti antisemiti come Fourier e Pierre Joseph Proudhon: la campagna era considerata la vittima dello sfruttamento parassitario ebraico, tesi condivisa anche da molti autori tedeschi, ma al contrario di Proudhon, Toussenel era monarchico e favorevole alla centralizzazione che vedeva come una valida difesa di poveri ed indifesi.
Abbastanza logicamente l’avversione di Toussenel era rivolta anche ai paesi protestanti, Inghilterra e Olanda, che avevano tentato di sminuire la potenza francese, con teorie non molto dissimili da quelle espresse a fine XIX secolo da Drumont; i fondamentali del suo pensiero erano l’interesse per il diritto al lavoro, l’opposizione al capitalismo finanziario e la richiesta di eguaglianza per tutti i francesi così com’era accaduto, a suo dire, nel medioevo.
Compagno di Toussenel nell’odio verso ebrei e capitale finanziario, così come nel rifiuto della modernità e del suo corollario più evidente, l’urbanizzazione, fu Pierre-Joseph Proudhon che si differenziava però per un illusorio ottimismo secondo il quale la libera associazione e la riforma morale dell’individuo avrebbero reso inutile l’uso della forza tra gli uomini.
“Auri sacra fames” avrebbero potuto ben pronunciare entrambi, in comune anche con Richard Wagner in Germania: l’oro era lo strumento e il simbolo dello sfruttamento dell’ebreo di cui Proudhon chiedeva l’espulsione dalla Francia; il razzismo di Proudhon era, in definitiva, di origine economica, dovuto all’avversione al capitalismo finanziario.
Questi socialisti utopisti furono il tramite per l’ingresso del razzismo nelle esperienze di tipo comunitario che erano,
verso la fine del secolo XIX, l’aspirazione di un gran numero di uomini; il loro socialismo comunitario era lontano dal marxismo ed affine, invece, al nazionalismo basato su alcuni tratti comuni individuati nella storia comune, la terra natale e un vago senso di interiore necessità; Toussenel e Proudhon, ad esempio, erano interessati al destino della Francia e proprio questa nazione, comunità nazionale e socialista avrebbe dovuto escludere gli amorali ebrei dal proprio territorio.
Il fascismo, in definitiva, avrebbe costruito su fondamenta già edificate, avendo costruito su un razzismo già alleato ad ideali comunitari rafforzati anche dall’esperienza del cameratismo bellico della Grande Guerra.
Toussenel e Proudhon, pur rifiutando il marxismo, condivisero almeno in parte con Marx le idee sull’ebraismo; secondo quest’ultimo (articoli sulla questione ebraica, 1844) gli ebrei rappresentavano il capitalismo (quindi non solo quello finanziario, ma di qualunque genere) e con lui sarebbero scomparsi per assimilazione; la posizione di Marx, in fondo non era razzista poiché ipotizzava la fine d ogni conflitto.
Il campione del nazionalsocialismo francese, però, fu Eduard Drumont che considerò gli ebrei come la rovina della Francia e per la cui espulsione cercò alleanze con chiunque fosse d’accordo con lui; l’espulsione avrebbe comportato un netto miglioramento delle condizioni di vita dei francesi e la pace sociale visto che avrebbero beneficiato delle confische degli innumerevoli beni degli ebrei profittatori.
Il nazionalismo di Drumont univa caratteristiche tra loro eterogenee: l’odio verso gli ebrei non era esclusivo ma rivolto anche a massoni e protestanti, nemici di un’unità della nazione che solo il cattolicesimo poteva garantire, sebbene lui stesso fosse poco credente ed anzi disprezzasse come debole e compromesso con gli ebrei il clero francese.
Drumont riprendeva le teorie antisemite di Toussenel che corroborava con le sue idee sulla decadenza francese, prendendo spunto da Jean-Baptiste Morel e da Cesare Lombroso: l’ebreo è riconoscibile dai segni del decadimento fisico (il naso adunco, lo sguardo sfuggente, le orecchie sporgenti, il corpo allampanato, i piedi piatti, le mani umidicce) ed è inoltre senza radici perché di origine nomadica (l’«anima di un beduino, capace di dar fuoco a una città per bollirsi l’uovo»), oltre che colpevole, com’è ovvio della «calunnia del sangue».
Drumont non si limitò alla professione di giornalista; per sostenere le proprie idee cercò, con risultati scarsi, di creare movimenti sociali e politici ma ebbe successo soltanto indirettamente, grazie all’influenza che esercitò sul sindacato denominato «Les jaunes», così battezzati da quando alcuni operai che avevano rifiutato di aderire a uno sciopero adoperarono della carta gialla per riparare i vetri infranti delle finestre della loro sala di riunione.
Questo, entrato nell’influenza di Drumont nel 1903 e scioltosi nel 1908, era composto da un importante numero di iscritti e non era solo un semplice sindacato d’impresa; secondo il suo leader Pierre Biétry esso doveva favorire la proprietà di fabbriche da parte di cooperative operaie puntando sull’ascesa degli operai al rango di proprietari, operai, però, nazionalisti cioè patriottici che combattevano gli ebrei, i rossi e i massoni
Le richieste sindacali erano quelle consuete: sicurezza di lavoro, sistemi di assicurazioni sociali e con tutti i corollari tipici del nazionalsocialismo; gli iscritti, di diverse provenienze, catalizzarono l’attenzione di vari esponenti della destra francese interessati ad un’esperienza che considerava gli operai non dei proletari, ma dei futuri proprietari, e che tuttavia prendeva in campo industriale qualche iniziativa ostile al nemico capitalista; così arrivarono ad essere l’unica organizzazione di massa di destra con quelle caratteristiche se si esclude l’esperienza viennese dell’elezione a sindaco di Karl Lueger.
Il successo di «Les jaunes» fu dovuto, inoltre, a una serie di scioperi falliti poco prima della sua istituzione; una volta che i sindacati radicali riuscirono a recuperare gli iscritti questo sindacato si dissolse nonostante Drumont, peraltro già isolato, avesse organizzato un gruppo di agitatori.
Il pensiero di Drumont tornò in auge nel 1931 grazie a Georges Bernanos; questi lo presentò, nella “Grande paura dei benpensanti” (“La grande peur des bien-pensants”, 1931), come modello di francese che aveva rifiutato di scendere a compromessi con i conservatori, i liberali e i socialisti, traditori della loro missione mirante alla liberazione dell’uomo e venuti invece a patti con la borghesia egoista e avida.
Drumont a questo punto diventava un simbolo, quello del combattimento tra una società senza Dio e quindi senza senso, il cui rappresentante borghese era l’ebreo senz’anima ed una vita ricca di significato, impegnata alla realizzazione dell’individuo.
Bernanos certamente non aveva di mira gli ebrei quanto piuttosto era interessato a valorizzare un pensiero, quello di Drumont, che pochi anni dopo avrebbe, però, ricusato; resta il fatto che quello fu il campione esaltato come combattente contro il predominio mondiale ebraico, uomo indipendente dai poteri borghesi che svelava scomode verità ai concittadini.
La sua figura venne ripresa anche da quei giovani che, negli anni ’30 provarono simpatia per il razzismo cioè coloro che simpatizzavano per l’Action française e il giornale «Je suis partout».
Un esempio è offerto da Louis-Ferdinand Céline in “Bagatelle per un massacro” (“Bagatelles pour un massacre”, 1937) che riprese secondo lo stile di Drumont l’attacco contro gli ebrei ma addirittura con maggiore violenza e indiscriminatezza, ma non fu l’unico; altri due esempi di isteria e violenza tipici del periodo si hanno con Jules Guérin e il marchese di Morès.
Jules Guérin fondò un «Grande Oriente», antiebraico e antirepubblicano nel tentativo di rispondere con gli stessi mezzi a quelli delle cospirazioni ebraiche e massoniche; oltre a questo ammassò armi nella sua sede, in rue de Chabrol, per un colpo di stato e nel 1899 sostenne per parecchi giorni un assedio della polizia.
Non fu da meno il marchese di Morès che nel 1892 aveva finanziato uno sciopero a Parigi di cocchieri e di macellai e aveva creato nei quartieri operai della città dei “bistros”, dove gli avventori, per avere birra gratis, dovevano sottoscrivere un progetto di crediti agli operai ideato da Morès e condanne contro la razza ebraica.
Entrambi, un tempo vicini a Drumont, organizzarono delle bande di macellai del distretto parigino di La Valette, pagate attraverso i finanziamenti di monarchici, bonapartisti e alcuni industriali, che inscenavano dimostrazioni e provocavano disordini per le strade.
Guérin e Morès simboleggiavano, agli occhi di una parte della gioventù, quel modo di vivere in base ad eroici ideali che aveva colpito anche il Bernanos sostenitore di Drumont; essi venivano incontro a tutte quelle istanze di difesa della patria che propugnavano uno stile di vita non apatico; le loro richieste erano perlopiù sempre le stesse: espellere gli ebrei dalla Francia, confiscare le loro proprietà e realizzare così una più giusta distribuzione economica dei beni.
La violenza da loro espressa si concretizzò in manifestazioni di piazza, scontri con la polizia ma niente di violento venne messo all’opera contro gli ebrei se non slogan retorici durante i raduni.
I nazionalsocialisti francesi erano dunque interessati a una forma di democrazia popolare con un leader carismatico ed una forma di governo di tipo plebiscitario; il loro bacino si collocava nella tradizione giacobina: essi erano ostili al sistema esistente, ma fervidi patrioti, fautori di una forma autoritaria di governo basata sul consenso popolare, celebratori dell’ideale di giustizia e di eguaglianza
Questo ideale di governo per molti risaliva alla Comune parigina del 1870 ed infatti furono i seguaci del putschista Auguste Blanqui a passare dall’impegno nella Comune di Parigi ai nazionalsocialisti guidati da Ernest Granger, intimo amico di quest’ultimo.
I blanquisti, pur avvicinandosi a Drumont e alle leghe antisemite, non abbandonarono il loro giacobinismo ed in effetti il loro leader di fine secolo, Ernest Roche, fece proprie le idee di Drumont pur continuando a proclamare la solidarietà operaia
Tra i più famosi esponenti di questo pensiero si trovano Henri Rochefort, direttore dell’«Intransigeant», e la famosa anarchica Louise Michel, tutti pregiudicati o esiliati per i fatti della Comune parigina; con loro il nazionalismo implicito in questa insurrezione passò in primo piano, unito a una buona dose di antisemitismo o persino di razzismo, con in più un’incurabile propensione alla violenza.
Il nazionalsocialismo francese trovò alimento anche dagli accadimenti dell’Algeria; l’Algeria non era una colonia, ma un dipartimento della stessa Francia ove si viveva in continuazione il conflitto tra la classe media ebrea, i coloni francesi in cerca di spazio e i musulmani impoveriti.
Gli ebrei algerini erano stati naturalizzati dal decreto Crémieux del 1870, nonostante le opposizioni di musulmani e coloni e da allora l’Algeria aveva visto agitazioni di carattere antisemita e razzista.
I nazionalsocialisti e i razzisti algerini prefigurarono il futuro degli altri movimenti razzisti europei contemporanei, con le loro vittorie alle elezioni degli anni ’90.
Nel biennio 1896/97 il movimento razzista elesse i sindaci di Orano, Costantina ed Algeri dove il venticinquenne Max Régis chiese agli algerini di «innaffiare l’albero della libertà con il sangue ebraico», tentò di cacciare gli ebrei dalla città e fomentò una settimana di “pogrom”, con conseguenti morti e danneggiamenti.
Parigi intervenne e dopo un mese di governo Régis, paragonato a Robespierre, venne deposto e andò in esilio a Parigi dove condivise il programma non solo di Drumont, ma anche degli ex comunardi visti sopra; da Parigi continuò ad auspicare quella guerra tra le razze che non gli era stato consentito di combattere ad Algeri
L’esperienza algerina è importante per alcune peculiarità:
- a) per la prima volta si realizza un programma politico coerente nella sua violenza e razzismo a danno degli ebrei, visti come classe media e bottegai da coloni e musulmani;
- b) la politica razziale ha successo in ambito locale dove la gente manifesta le proprie frustrazioni senza i vincoli della politica nazionale
- c) la politica antiebraica trova il sostegno popolare, contro il governo centrale (che aveva avviato una politica razzista contro i neri ma si opponeva a quella antiebraica);
- d) il razzismo si collega alla democrazia e questo collegamento determinerà il suo futuro nel resto d’Europa.
Il nazionalsocialismo non fu fenomeno esclusivamente francese sebbene qui abbia trovato un terreno particolarmente fertile; anche l’Europa centrale vide il sorgere di analoghi movimenti e pensatori che sostenevano un simile stato nazionale e sociale, tuttavia in questi contesti l’odio consueto verso gli ebrei e la sollecitudine verso gli operai si trovò di fronte a tipologie di nemici non presenti in Francia e questo rapporto tra ebrei e nemici di altro genere creò delle specificità uniche nei vari territori.
In Austria, ad esempio, tra il 1881 e il 1907, il movimento pan germanista fondato da Georg von Schönerer adottò le idee di Drumont ma dovette declinarle all’interno dell’ideologia che si prefiggeva il distacco dall’impero austro ungarico e l’unione con la Germania. In questo caso tra i nemici c’era la chiesa cattolica, i popoli stranieri e il governo asburgico ma gli ebrei divennero comunque l’ossessione centrale per cui Schönerer mescolò violenza razziale e domanda di arianizzazione, difesa delle libertà civili dei lavoratori e richieste di una più avanzata democrazia politica ed economica e condannò la censura della polizia.
Un programma tipicamente nazionalsocialista in cui il centro dei problemi era l’ebreo, fulcro di tutti i problemi sociali e politici del momento.
Schönerer ebbe un certo successo presso gli studenti viennesi, come il suo omologo tedesco Stoecker in Germania che era, però, più moderato e non razzista essendo di religione protestante: in Austria le confraternite studentesche, infatti, esclusero gli ebrei cosa che le omologhe tedesche non avevano messo in atto anche se molte avevano già decretato il bando degli ebrei.
Schönerer intendeva combattere gli ebrei col criterio dell’«occhio per occhio, dente per dente» e negava valore al battesimo; sul fronte della lotta antiasburgica, invece, propugnava il suffragio universale maschile, limitato, però, alla popolazione germanica e sfruttato per l’unificazione al Reich tedesco.
Dei tre nemici di Schönerer, gli ebrei, il Papa e gli Asburgo il primo portava consensi ma gli altri due impedirono la penetrazione nelle masse cattoliche, tuttavia egli trovò una cassa di espansione presso gli operai specializzati e dell’industria in Boemia, messi in crisi dall’immigrazione ceca.
Lo scontro tra i boemi tedeschi e gli slavi cechi creava un clima di razzismo persistente perché i cechi erano considerati dei parassiti biologicamente inferiori, ma pericolosi per la razza superiore dato il loro vigore fisico e i loro tassi di incremento demografico.
Lo scontro ebbe origine dal decreto Badeni del 26 aprile 1897, che equiparava in Boemia la lingua ceca al tedesco; la lingua fu, di nuovo, considerata un elemento essenziale della nazionalità e questo funse da catalizzatore di ogni settore della popolazione tedesca che si coalizzò per difendere questo privilegio; ovviamente alla testa della protesta stavano gli studenti, ma anche gli operai parteciparono attivamente; questo avrebbe potuto permettere a Schönerer di diventare il Führer dell’Ostmark ma, siamo nel 1904, il suo interesse era ormai rivolto a studenti e negozianti e non ai lavoratori.
Il 904 vide un altro evento importante, la nascita, in Boemia, del partito dei lavoratori tedeschi (“Deutsche Arbeiter Partei”) che si sciolse poi nel 1918 dopo aver cambiato nome in partito dei lavoratori tedeschi nazionalsocialisti; questo partito sosteneva le idee ormai consuete: forte organizzazione sindacale, libertà di stampa e di riunione e così pure la trasformazione dell’Austria imperiale in uno stato tedesco democratico e “volkisch”.
Obiettivi della lotta politica del partito erano il liberalismo, i cechi, la socialdemocrazia «ebraica» e il capitale «ebraico»: bandita la lotta di classe all’interno del “Volk”, veniva ammessa la violenza contro cechi ed ebrei secondo una logica non molto diversa da organizzazioni quali la francese «Les jaunes».
Significativo come questi movimenti nazionalsocialisti, indipendenti gli uni dagli altri, alla fin fine proponessero identiche soluzioni a dimostrazione dell’esistenza di una comune generale aspirazione presente in tutta Europa a una comunità più egualitaria nell’ambito della mistica nazionale.
Le idee dei lavoratori boemi furono riprese poi da Hitler, che non è detto conoscesse la storia di questi precursori, così il partito nazionalsocialista nacque prima di quello hitleriano ma i suoi dirigenti confluirono poi nel nuovo omonimo partito quando nel 1923 iniziò ad espandersi in Boemia e Moravia.
Questo nazionalsocialismo ottenne comunque qualche successo nella Germania prima della Grande Guerra: ebbero particolare fortuna le idee di Karl Eugen Dühring, a Berlino che si può considerare il Drumont tedesco.
Dühring non ebbe il successo politico di Drumont, tuttavia Friedrich Engels, nel 1876, gli dedicò un testo, l'”Anti-Dühring”, a testimonianza della diffusione delle idee del professore tedesco, considerate effettivamente pericolose per il socialismo: egli rappresentò il modello dell’uomo integro alieno da ogni compromesso in un’epoca corrotta.
Agli inizi di carriera Dühring era stato elogiato dal leader socialista August Bebel, aveva colpito Eduard Bernstein ed era stato un esponente di belle speranze del radicalismo, considerando che divenuto professore all’università di Berlino, in una facoltà tutta anti-socialista, vi aveva propugnato il diritto di associazione e di sciopero degli operai.
Dühring assegnava allo stato il ruolo di mediatore tra operai e datori di lavoro, pur negando nello stesso tempo che l’economia fosse regolata da leggi immutabili, il che suscitò le critiche di Engles che vedeva messa in pericolo l’ortodossia marxista, ma l’espulsione di Dühring dall’università, per avere insultato i colleghi, nel 1877, cambiò di netto la situazione.
Le teorie economiche cambiarono radicalmente, egli si oppose allo stato per sostenere la formula del «fai da te» nell’ambito di comunità indipendenti, per arrivare poi, nel 1900, a ipotizzare la necessità di un superuomo che sistemasse le cose; nel frattempo aveva condannato scioperi e sindacati perché il lavoratore doveva essere spinto a entrare nelle classi medie.
La deriva verso una concezione volkisch di società ed economia prese sempre più piede ma Dühring era ormai avviato ad una lotta paranoica contro tutto e tutti dai socialdemocratici che lo avevano sostenuto a Richard Wagner che aveva cercato di difenderlo.
Unitamente a questi cambiamenti si accentuò il suo razzismo: nel 1880 vide la luce un’opera destinata ad avere successo, il cui titolo è tutto un programma: “La questione ebraica come problema di carattere razziale e il danno da essa arrecato all’esistenza, alla morale e alla cultura dei popoli” (“Die Judenfrage als Frage des Rassencharakters und seiner Schädlichkeiten für Völkerexistenz, Sitte und Cultur”).
La condanna ebraica era senza appello ma a questa Dühring aggiunse anche quella del cristianesimo (a differenza di Drumont) considerata un’invenzione ebraica per sottomettere il mondo intero; egli considerava attuale la guerra razziale, come già avevano fatto Wilhelm Marr in “La vittoria dell’ebraismo sul Germanesimo” (“Der Sieg des Judentums über das Germanentum”, 1867) e poi Houston Stewart Chamberlain in “I fondamenti del secolo diciannovesimo”, guerra razziale in cui gli ebrei rappresentavano la minaccia non solo ai leali, fiduciosi e lavoratori tedeschi, ma a tutto il mondo.
Sebbene il pensiero di Dühring abbia mantenuto influenza in certi circoli di sinistra ben oltre la sua scomparsa, sia lui che gli altri antisemiti non riuscirono ad avere alcun successo politico a Berlino mentre le idee antisemite riuscirono a penetrare nelle regioni rurali tedesche (a differenza di quanto avvenne in Francia ove alcuni operai si riunirono in circoli antisemiti nella capitale).
Ne è esempio la Lega contadina dell’Assia (1885-94), sotto la guida di Otto Böckel, esempio unico di penetrazione sindacale nelle campagne, dove solitamente, per esempio in Francia, regnavano i cattolici ed i conservatori, questi in particolare avversi alla Lega contadina perché considerata un elemento di disturbo per la loro alleanza con i gruppi agrari.
Il leader, Otto Böckel, era un capace organizzatore ed abile propagandista che seppe unire alle idee nazionalsocialiste, quindi ostilità verso gli ebrei, anche progetti di riforme sociali e di istruzione popolare.
In continuità con teorie già consolidate, Böckel considerava gli ebrei come parassiti e sfruttatori, idea che ebbe grande successo in Assia dove vi erano importanti insediamenti ebraici nelle piccole città e dove gli ebrei erano mercanti di bestiame e anche banchieri.
Böckel plagiò Toussenel intitolando il proprio libro “Gli ebrei, re del nostro secolo” (“Die Juden – Könige unserer Zeit”, 1886) e la sua lega contadina inaugurò la propria attività inviando il suo saluto a Eugen Dühring; egli continuava la linea di Toussenel e Dühring sostenendo che il problema ebraico aveva carattere razziale e non religioso, niente di originale, insomma, tuttavia, a differenza degli altri a lui riuscì di mettere in pratica le sue idee.
Le idee di Böckel e della Lega dell’Assia:
- a) no a utilizzo illecito del capitale, ma senza abolizione della proprietà privata;
- b) utilizzo del «fai da te» concretizzato in cooperative dirette dai contadini, acquisto e vendita generi di prima necessità e non solo, scomparsa della figura del mediatore, contratti diretti con le fabbriche per produzioni a basso prezzo;
- c) nascita di banche prestatrici senza interessi;
- d) nazionalizzazione materie prime essenziali (tipo carbone).
Questo movimento era fondamentalmente razzista e attivamente razzista: eliminazione degli ebrei dai mercati e della finanza anche con campagne stampa mirate e con oratori itineranti.
Molto radicale nella prassi, Böckel mitigò le sue idee teoriche, non soltanto paragonando la sua lega contadina al partito socialdemocratico, ma pretendendo fedeltà alla Chiesa (protestante) e alla monarchia contro ogni tentativo di rivoluzione e definendo la sua lega il partito della legge e dell’ordine; il temperamento del suo nazionalsocialismo con elementi del programma conservatore rese il suo progetto digeribile alle regioni rurali.
Egli ottenne un considerevole seguito e fu anzi la più significativa avanzata nazionalsocialista in Europa tanto che alcuni nazisti compresero poi il debito verso di lui e lo omaggiarono con tanto di museo alla memoria a Marburgo.
Il declino di Böckel si ebbe a inizio secolo quando le sue cooperative fallirono perché egli non era mai stato capace di procurare alla sua vasta rete di cooperative una adeguata base economica, né era riuscito a unificare i vari istituti di credito.
Finì così nell’ombra come i vari Drumont e Schönerer ed i loro movimenti che, nel primo decennio del XX secolo, si trovarono schiacciati tra le istanze conservatrici, liberali e socialiste e troppo legati a quelle forti personalità dei fondatori che, peraltro, avevano commesso evidenti errori di valutazione politica, economica e sociale.
Nel 1900 le crisi economiche della fine del XIX secolo sembravano terminate per lasciare il posto ad una ripresa che è stata chiamata l’estate di San Martino del mondo borghese; in questo clima il nazionalsocialismo sembrava spacciato ed infatti avrebbe preso il potere soltanto in seguito ad una catastrofe delle dimensioni della Grande Guerra.
Nel frattempo la lega di Böckel era diventata un gruppo di pressione agraria senza ambizioni nazionalsocialiste, anche se non rinunciò all’antisemitismo; i suoi dirigenti in vita aderirono poi al nazismo ma l’Assia non vide, negli anni ’20 un particolare successo nazista rispetto ad altre zone economicamente e socialmente omologhe.
Prima della Grande Guerra fu, insomma la Francia piuttosto che la Germania il paese dove un movimento razzista e nazionalsocialista avrebbe potuto prendere il potere; in Germania l’antisemitismo era patrimonio comune anche senza il razzismo e quest’ultimo era ancora confinato nelle discussioni accademiche, nelle consorterie intellettuali, nei movimenti eugenetici o in alcune divulgazioni a livello popolare del darwinismo.
Fu la prima guerra mondiale con le sue conseguenze imprevedibili nel 1914 che ridiede vigore al razzismo in tutte le sue forme, sia nazionalsocialiste, conservatrici o semplicemente nazionaliste, sia come scienza o mistero della razza.
Prima dello scoppio della Grande Guerra regnava una relativa sicurezza e il benessere prevaleva tra le classi medie così come sembravano conclusi i conflitti che avevano lacerato all’interno le varie nazioni europee; il razzismo sembrava confinato nelle colonie europee mentre sembrava avere concluso il suo sviluppo sul continente eppure fu lì che a breve tempo la guerra e le rivoluzioni ridiedero al razzismo la forza per conquistare e gestire il potere.