Musei capitolini

I musei capitolini ospitano la bella mostra “Lux in arcana” che, già da sola, merita la visita; senza esposizioni temporanee sono, comunque, uno straordinario patrimonio di opere che hanno segnato la storia dell’umanità. Farne un catalogo sarebbe inutile.

Mi permetto di segnalare quello che ho trovato, anzi ritrovato, di splendido.

Mentre scrivo queste righe provo, con particolare acutezza, il senso di disagio che mi accompagna quando penso di dover tornare al lavoro: quale contrasto tra la bellezza prodotta dal genio umano, spesso in condizioni di sofferenza, Caravaggio per citarne uno, e la gretta banalità di lotte tra conventicole, per strappare briciole di un apparente potere che è, in realtà, bieca impotenza (dannosa in quanto improduttiva anzi occasione di guerra civile): non c’è idea di potere ma impotenza.

Mi trovo ogni giorno a fare i conti con l’impotenza e la prepotenza che sono strettamente collegati col provincialismo: mi viene da porre un nesso tra queste due questioni: provincialismo e prepotenza.

Nei musei capitolini, invece, si respira un senso ben diverso, di apertura, di bellezza, di universalità: i romani non hanno perso troppo tempo a combattersi per i pidocchi delle rispettiva capanne ma hanno ampliato il loro raggio d’azione al mondo conosciuto, direi che sono stati universali.

Ricordavo la presenza di Caravaggio con “La buona ventura”, dipinto, è quasi inutile dirlo, bellissimo; avevo dimenticato invece l’altro, il San Giovanni che, per quanto bellissimo, non stimola la mia attenzione  in ugual modo (e le foto che ho scattato non sono adeguate); c’è un autoritratto di Velazquez che commuove per l’intensità dello sguardo, poi ci sono altre opere che ho trascurato per dedicarmi alla bella mostra temporanea.

San Sebastiano, non foss’altro che per il suo ruolo di protettore, è sempre oggetto di particolare attenzione: qui ci trovo quello di Guido Reni e non solo quello.

Ho dedicato, invece, attenzione alle sculture, partendo da un’inaspettata, non la ricordavo proprio, ero convinto fosse in tutt’altro posto, Medusa, del mio adorato Bernini: il volto triste, angosciato, secondo i critici rappresenterebbe il momento in cui la Gorgone si accorge di vedersi riflessa nello scudo trasformandola in pietra.

Non so se sia una metafora della scultura barocca, rimane il genio di Bernini, abilissimo nel rappresentare nella pietra l’intensità delle emozioni: si conferma il mio scultore preferito.

Trovo poi la scultura romana: con questa ho un rapporto d’amore carsico, ogni tanto sprofonda nella memoria per poi riemergere improvvisamente; scultura romana e copie da originali greci, sopra tutte il Galata Morente, straordinaria rappresentazione di un soldato vinto e sul punto di morire, ovviamente irreale visto che l’uomo è nudo e non credo che i galati fossero così tonti da andare in battaglia senza vestiti.

Oltre al Galata ci sono il Marco Aurelio, la statua colossale di Costantino, i ritratti imperiali, bellissime anche le donne  dell’aristocrazia romana, la lupa capitolina, i mosaici, le varie statue di Minerva, Eros, Giove o Marforio, la statua che rappresenta forse Oceano o forse qualche fiume e che è stata una delle più celebri statue parlanti di Roma.

Un discorso a parte meritano anche i numerosi sarcofaghi che quanto a decorazione, bellezza, vitalità (fa un po’ ridere parlando di urne funerarie) non sono inferiori alle statue: anche in questo caso ho modo di rifarmi gli occhi.

La Venere capitolina, altra copia romana di originale greco, ritrae la dea nella cosiddetta posizione pudica ed è un ulteriore patrimonio custodito dalle sale del museo; non ho dedicato attenzione alle sale affrescate perché la mostra dedicata all’archivio vaticano richiedeva un’illuminazione assai minimalista.

Ne sono uscito nel primo pomeriggio dopo 4 ore di visita senza avere sentito stanchezza o noia.

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