Michel o un inaspettato incontro

Giornata impegnativa, quella di oggi, almeno meteorologicamente.

Trovandomi nella Romagna che è, per definizione, solatia (sono come i cani pavloviani, non appena sento “Romagna” mi scatta in automatico “solatia dolce paese”) oggi ho scoperto che anche qui arriva il maltempo, nonostante la mia fiduciosa speranza di trascorrere una consueta bella e calda giornata di sole.

Sulla via del ritorno, dunque, mi trovo nel bel mezzo di un tranquillo ed equilibrato acquazzone che ha dato ristoro alla terra riarsa ma che ha provveduto ad inzupparmi come il proverbiale pulcino.

Arrivato in stazione, finalmente al riparo, ho scoperto che la mia merenda, le fragole, a causa dello sballonzolamento dello zaino, hanno macchiato il libro che avevo portato con me.

Per completare il ritorno, una volta arrivato il treno, lo trovo strapieno ovvero, per continuare le metafore avicole, pieno come un uovo.

Salgo e mi stringo come una sardina, stipato tra baldi studentelli universitari e qualche famiglia di ritorno dalle vacanze; restando in piedi non posso nemmeno leggere per cui l’umore non è dei migliori.

Accanto a me, in un primo momento, poi comunque a pochi passi, c’è anche un ragazzo con qualche difficoltà intellettiva.

Addossato alla porta c’è un giovanotto con leggera barbetta, uno sguardo tranquillo e atteggiamento pacato ma sveglio.

Non so come sia partita la cosa ma ad un certo punto questo baldo giovanotto individua un (scopriremo poi cortesissimo e simpatico) signore che assomiglia a Maurizio Costanzo e comincia a scherzare, dicendo ad alta voce “Maurizio Costanzo col collo” ed imitando il suo eloquio romanesco.

In questo breve siparietto coinvolge anche il ragazzo in difficoltà, che tratta con encomiabile delicatezza.

Una qualche battuta che raccolgo anch’io e subito il clima tra i passeggeri diventa più allegro.

Certo c’è il rischio che ci sia molto narcisismo, ma non mi è parso.

Ho saputo da lui medesimo che si chiama Michel, che è originario di Cremona, che ha lavorato in varie località italiane e romagnole, facendo il barman per mantenersi agli studi.

Anche lui è sceso a Parma, dove vive, ed ha parlato, con equilibrio della città ducale (peraltro condividendo la mia affermazione sullo snobismo dei miei compaesani), affermando che è una città molto bella, come in effetti è.

Ha anche parlato, ignorando la mia professione, della polizia municipale ed anche in questo caso senza le consuete sciatte banalità cui sono abituato.

Di altre cose personali, dalla religione (nessuno è perfetto) alla situazione patrimoniale non riferirò.

Il viaggio è trascorso con inaspettata velocità e di questo gli riconosco un debito di gratitudine.

Avrebbe potuto andare ben diversamente, con la presa del potere delle lamentele sul tempo o delle recriminazioni sul servizio di trenitalia (treno inadeguato e insufficiente) e  sarebbe stato ben altro appuntamento, perchè ogni incontro è sempre un appuntamento cui si può andare o meno.

Michel è stato, in questa occasione, virtuoso perchè amico del pensiero, quindi anche mio amico (sebbene sia probabile che non abbia più occasione d’incontrarlo, il che rileva poco).

Il dialogo con lui mi fa venire in mente due notizie raccolte stamattina dal Corriere della Sera, una riguarda le case bianche di Milano, dopo la visita di papa Francesco: «Per quanto ne so io, uno degli ascensori usati dal Papa per visitare una famiglia di anziani ha smesso di funzionare già subito dopo — racconta divertita la signora Rossana, che dall’alto del suo sesto piano conosce bene il problema —. Il degrado, d’altra parte, lo creiamo anche noi stessi, perché c’è gente che proprio non ha cura né rispetto per niente e per nessuno, ma è anche vero che ci troviamo abbandonati: è più probabile una visita del Papa che un intervento di manutenzione…».

La seconda riguarda un giovane apolide, Dari Tjupa, giovane uomo che attende la cittadinanza italiana «da quando si è laureato in Economia delle istituzioni e dei mercati finanziari alla Bocconi con 106 pur essendo tecnicamente un senzatetto. Era stato un clochard anche se aveva già superato tutti gli esami nell’università più prestigiosa d’Italia. Anche se si era aperto la strada in Bocconi con una borsa di studio per merito — l’unico modo in cui avrebbe potuto permetterselo — lui e sua madre avevano dormito in aeroporto, mangiato alle mense di carità.»

Spero con tutto il cuore che Dari Tjupa ottenga la cittadinanza cui aspira e che merita; gli abitanti delle case bianche, si pongono, invece, su un altro versante: si ripropone il solito divario, e quindi bivio, di civiltà. La civiltà la si costruisce ogni giorno, con un lavoro di coltivazione quotidiano.

Quel che Michel ha fatto oggi, nella semplicità di poche battute nell’arco di un paio d’ora è stata una certa scelta tra le direzioni del bivio.

In onore suo e della professione che attualmente svolge con profitto, cito un articolo di Giacomo Contri, del lontano 10 giugno 2008, ma del tutto attuale:

IL BARMAN DEL BRONX

… per dare retta a chi mi suggerisce di riprendere tempestivamente questo paragone col barman.

Al recente Seminario “Il Lavoro Psicoanalitico”, venerdì 6 giugno u. s. [siamo nel 2008], dopo una serie di impegnate esposizioni di casi, ho suggerito di assumere come paragone il suddetto barman, figura tipica di tante storie poliziesche:
è il barista che, la sera o notte, raccoglie le confidenze di tanti disperati:
una storia a fumetti italiana, Cayenna, lo ha rappresentato piuttosto bene.

Tale personaggio ha due (e solo due) punti di contatto con lo psicoanalista, uno quanto a sè, l’altro quanto al confidente:

  1. primo punto: il barman è uno che va per la sua strada, bada a sè, e non si fa opprimere dal patetico che ascolta, né gli fa obiezioni, né si fa coinvolgere (“attenzione fluttuante”):
    passionale com’è, non è appassionato al patetico,
    e intanto il cliente beve e paga la sua consumazione, facendo del barista un barista;
  2. secondo punto: il confidente si fida di lui proprio perché il barman bada a sè, e dunque non sviluppa paranoia (“che cosa vuole da me?”):
    sa che fa il barista, che non gli “vuole bene”, che non mira a carpirgli segreti né a dirigerlo secondo una sua oscura volontà “benefica”:
    la sola volontà del barista e dello psicoanalista è di stare bene in proprio.

Qui i punti di contatto finiscono, fermo restando che il paziente dello psicoanalista è un cliente, un avventore, e il cliente ha sempre ragione:
ma lo psicoanalista non vede l’ora di potergliela dare (usa dire “interpretazione”), perfino quando, come ragione estrema, fa del suo peggio per avere torto
– e come dare torto allo psicoanalista quando getta la spugna, e comincia anche lui a credere alla resistenza come “male assoluto”? – :
ecco il desiderio dello psicoanalista
– che anche l’altro abbia ragione, ossia di avere un partner, ma non vorrebbe un partner senza ragione -,
ed ecco ciò che distingue lo psicoanalista dal barista.

Ho appreso che qualcuno dei presenti a tale Seminario si è sentito intrigato:
il fatto è che lo psicoanalista, come il barista, vive terra-terra, anche nella ragione:
in ciò, il barista stesso potrebbe andare dallo psicoanalista, il più terra-terra (o mattone-mattone).

Parma, 18 aprile 2016, memoria di San Galdino, vescovo

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