Partenza e arrivo in leggero ritardo (una ventina di minuti): lo stewart mi fa sedere in uno dei posti riservati alle vie di fuga (praticamente sull’ala) così che le gambe sono meno incastrate del solito.
Viaggio senza scosse; arrivo alla metro dove trovo i primi cambiamenti (di prezzo): le indicazioni sono la linea 1 con cambio per la linea 10 quindi scendere a Tribunal; in realtà sarebbe stato più comodo scendere a Gran Via, ma tant’è, 4 passi mi fan solo che bene. Mi ritrovo subito il passaggio di ben 5 furgoni della polizia, oltre ad una macchina ed una moto, insomma schieramento di prim’ordine: che mi stessero aspettando?
Sfuggo le tentazioni della mondanità e mi incammino verso l’albergo quando mi ritrovo un nutrito gruppo di giovani steso a terra in Fuencarral (dove ho l’albergo): mi preoccupo – inutilmente scoprirò a breve – del possibile rumore e dei conseguenti problemi a dormire.
Stanza dell’albergo piccola ma pulita e decorosa, si affaccia sull’interno così che è anche tranquilla (anche se le pareti sono di cartavelina).
Faccio un giro nei dintorni, rivedo il bar dove Grazia ed Enrico e Roberta, si erano seduti, appena arrivati e con mio grande scandalo, avevano fatto merenda; rivedo il ristorante dove avevamo cenato su suggerimento dei colleghi (deliziosa la cola de toro di quella volta).
Mi prende un po’ di nostalgia, d’altronde non è un mistero che mi manchino tanto.
Non ricordavo Calle Montera così adornata di signorine (l’ultima sera sono stato abbordato da almeno tre di queste gentili pulzelle) mentre ritrovo tutti i compratori di oro, segnale della crisi imperante.
Trovo pure 5 euro per strada che investirò, manco a dirlo, in ciliegie di cui mi farò scorpacciate industriali.
Finisco la serata immerso in dolci ricordi, guardando una puntata del Dottor Who sottotitolata: puntata straziante che mi strappa più di una lacrima poiché il compagno di viaggi del dottore si trova costretto ad una drammatica scelta amorosa.
Il giorno dopo mi riambiento, il senso di straniamento è scomparso (non avevo scattato manco una foto, dovevo essere proprio a terra vero?).
Inizio un giretto verso la Plaza Mayor e zone circostanti, con le chiese di San Isidro e San Francisco el Mayor; seguo, più o meno le indicazioni della mia guida (National geographic) salvo sbagliare strada (chissà come mai) e trovarmi dalle parti della Cattedrale de l’Almudena.
Visito la cripta neoromanica (un euretto di donativo spontaneo: è bene esserlo, spontanei, in questi casi, son brutti tempi anche per la chiesa) che è, di fatto, un grande cimitero, proprio come le chiese romaniche originali: vale la pena vederla perchè è comunque alquanto particolare per la suggestione dell’ambiente; vi trovo anche la tomba di una delle vittime dell’11 Marzo e, sul pavimento, sparsi in ovvio disordine, alcuni vasi di fiori, sulle tombe più recenti.
Torno a visitare anche la Cattedrale, che non è proprio per niente bella, non mi piace.
Una caratteristica spiacevole di Madrid è la mancanza di chiese che valga la pena visitare.
Trovandomi a due passi da Palazzo Reale, e non avendolo visitato la volta precedente, la scelta di andarci era abbastanza logica; nel brevissimo tragitto che mi separa dal Palazzo, intravedo una sfilata di guardie a cavallo: pensare alla cerimonia del cambio della guardia era scontato anche se l’orario non mi sembrava adatto.
Capirò poi che si trattava di una cerimonia ufficiale, un ricevimento di ambasciatori, tutti rigorosamente preceduti da alti funzionari in auto (un macchinone) e accompagnati in carrozza da scorta armata, paggi e quant’altro di coreografico si possa immaginare.
Impossibile resistere alla tentazione di scattare centinaia di foto.
Dopo una esitazione ormai abituale quanto inutile, decido di avvicinare un agente della Polizia Militare per chiedere spiegazioni ed è qui che accade la catastrofe: fascino della divisa? vecchiaia che avanza? stanchezza non smaltita? sia quel che sia, soddisfatto di avere avuto l’ardire di parlare con un collega, mi giro e faccio la conoscenza, ravvicinata, di un fittone che stazionava lì, placidamente, da anni.
La conoscenza non è molto intima, lui rimane feddino sulle sue posizioni, ma sufficiente a proiettarmi verso terra – preceduto dal mio onore infranto: perdo l’equilibrio e mi vedo e sento cadere, anche il sinistro rumore della plastica della macchina fotografica (fortunatamente resterà intatta) colpisce le mie orecchie mentre il mio corpo poco atletico (diciamolo pure flaccidotto) si accascia, con poco aggraziato movimento, fino a terra.
Il solerte poliziotto mi chiede se va tutto bene e mi aiuta a rialzarmi per poi rivolgermi un simpatico “ten cuidado” che mi ferisce più delle abrasioni; il paragone è iperbolico (forse che sono leggermente iperbolico?) ma mi viene alla mente il finale del “Il Processo” di Kafka: “Come un cane!” disse e gli parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere.“
Davanti a decine e decine di persone, sono stramazzato a terra con una goffaggine che ha ferito il mio orgoglio oltre alla gamba destra, escoriata, al dito medio sinistro escoriato e colpito duramente, come mi accorgerò più tardi quando, inavvertitamente, lo urto e mi compare in visione l’intera Via Lattea.
Mi trascino, dunque, all’ufficio informazioni del Palazzo per scoprire che sarà chiuso fino alle 16.00; provo allora a visitare l’altro appuntamento mancato della volta scorsa: il Monasterio de Las Descalzas Reales, impresa che resterà titanicamente irrealizzata (è sempre tutto pieno).
Mi oriento allora per il famoso Parque del Retiro, dove trovo la famosa statua di lucifero caduto – sti spagnoli!!! dedicare una statua al ribelle, seminatore di zizzania per eccellenza – quindi faccio un salto al Prado, dove c’è una temporanea dedicata a Raffaello.
Il Prado, come il Thyssen Bornemisza, è una gloria di Madrid e, da solo, vale più di un viaggio; qui contrariamente alle mie abitudini (vedere tutto di tutto, sempre), decido di dedicarmi a poche cose: un Caravaggio (Davide e Golia) giusto per antipasto, qualche Raffaello, un incantevole Velazquez con un Crocefisso meraviglioso e “Las Meninas”, e l’enigmatico Bosch (El Bosco como se diz aqui) che qui incanta con alcune opere straordinariamente affascinanti quali “El jardín de las Delicias, o La pintura del madroño”, “El carro de heno”, “Mesa de los pecados capitales” e mi fermo qui, qualche Zurbaran, Ribera e Goya “La Maja Desnuda”, quella vestida è in prestito (grrrrr), “Retrato del duque de Osuna”, “La reina María Luisa a caballo”, “La familia de Carlos IV”, ed infine El Greco che sarà un po’ il filo rosso di questa visita spagnola.
Il grande problema di questi straordinari musei è l’overdose di capolavori per cui si corre il rischio, anzi la certezza, di rimanere storditi e di non portare a casa nulla di più dello stordimento stesso.
Riprovo, inutilmente, dalle Descalzas e decido di avviarmi ad un’altra meta che coltivavo da tempo: il Tempio di Debod.
Vi arrivo ormai sfiancato dalla fatica, mai fino ad ora avevo camminato tanto, manco la pausa per il pranzo ho fatto, mangiando un panino veloce al Retiro, e dal sole che picchia forte anche se il clima è fantastico.
Il Tempio è una vera delusione, mi aspettavo chissà che di maestoso, imponente ed invece sono tre costruzioni niente di che.
Inutile dire che era chiuso, il che in un primo tempo mi fa leggermente irritare, salvo poi scoprire che era a causa della programmazione, nella serata, di Rigoletto.
Riprendo il coraggio a due mani e dopo avere verificato che lì attorno non ci fossero infingardi fittoni pronti a colpirmi a tradimento, chiedo alla guardia dove comprare i biglietti; mi risponde che è gratis e che sta arrivando gente per cui è opportuno prendere posto; scappo a prendere cibarie (trovo un negozio da cui compro due kg di ciliegie ed uno di albicocche – queste ultime pessime purtroppo) e liquidi e torno ad occupare un posto in quasi prima fila.
Ho un’ora di anticipo, la posizione non mi sembra male, ma c’è sempre un inghippetto: lo spettacolo si svolgerà in buona parte sull’altro lato, il che è poco male, peggio è quando si girano verso di noi, allora un orrendo faro ci acceca letteralmente visto che sembrava puntato proprio sulla mia faccia.
Lo spettacolo è comunque bello, mi pare che l’orchestra fosse un po’ troppo ridotta, mi aspettavo una musica più consistente, non mi sono piaciute certe accelerazioni, ma la dizione era buona, il canto pure.
La mia ignoranza musicale è conclamata, mancavano i miei anfitrioni Gabriele Trivelloni e sua moglie Silvia Sangiorgi, lui massimo esperto di musica operistica che io conosca e lei sua degna compagna, tuttavia direi che è mancata un po’ di consistenza nelle voci maschili che mi aspettavo più profonde e drammatiche.
La sorpresa di una manifestazione del genere è stata comunque graditissima (era da Siviglia, dal concerto di musica barocca, che non mi capitava un’occasione così) e nonostante la stanchezza, l’orario, la distanza, sono stato davvero contento di avere approfittato di quanto mi veniva offerto.
C’è stata, all’inizio, qualche carampana che ha provato a chiacchierare nelle mie vicinanze: un paio di sguardi inceneritori hanno ridotto tutte al silenzio.
Torno dunque a casa che è ormai mezzanotte, stremato ma contentissimo e inizio a festeggiare il genetliaco finendo le ultime ciliegie.
Il giorno successivo sarà dedicato a Toledo.
Stavolta scopro della Spagna alcune cose che proprio non mi piacciono: l’equivocità della parola caffè (al Prado 2,80 € ed è un caffè credo americano, mai che tutti intendano la medesima bevanda preparata nello stesso modo); il costo e la poca diffusione dell’acqua con le bolle (con gas) ed il caos più totale in cui vivono di notte fino alla madrugada, cioè l’alba.
Aanche se sempre con estremo ritegno e qualche inibizione, in questi giorni parlo senza problemi, in qualunque occasione mi capiti di farlo, arrivando addirittura a fare da traduttore in un dialogo – potenzialmente poco amichevole – tra un tedesco (forse) ed una barista.
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