Avendone vista la pubblicità a Guastalla, ho pensato bene di godermi l’ennesima mostra dedicata al liberty.
L’ultima era a Forlì, stavolta assai più a portata di mano, a Reggio Emilia, a Palazzo Magnani.
Ho dovuto fare un po’ di fila, inaspettata a dire il vero, ma ne sono stato ben compensato: l’esposizione non è grandissima, i pezzi sono circa 300 ma molte opere sono di grafica oppure volumi che occupano poco spazio.
Esposizione gradevole, che ho visitato tranquillamente, godendomela in pace.
Buona anche l’audioguida gratuita anche se migliorabile; all’uscita il giovanotto addetto alla biglietteria, persona oltremodo cortese, mi ha chiesto un giudizio, come aveva fatto anche in occasione dell’ultima visita, per la mostra dedicata a Piero della Francesca; l’ha ricevuto positivo e mi ha ringraziato in un modo che ho molto apprezzato.
Veniamo alla mostra: liberty in Italia ovvero come è stata declinata l’Art Nouveau, Jugendstil, Modernismo o Secessione a seconda delle zone europee in cui si è diffuso.
Uno stile nuovo che vuole essere, credo per la prima volta nella storia, alla portata delle classi agiate borghesi, quindi di massa.
Le opere di grafica, pubblicitarie, rispecchiano un gusto che diventa onnipervasivo, declinato poi a seconda delle sfaccettature di ogni disciplina.
Così non mancano degli straordinari vasi in ceramica, in particolare quelli di Galileo Chini, vaso con pavone e vaso a due anse con testa di Medusa, quello di Domenico Baccarini, presente solo in modello, vaso a boccia con tre fanciulle danzanti, per proseguire con Giuseppe Cellini, vaso verde con serpenti, Arturo Martini, vaso con lumache e vaso con leoni, per arrivare a tre pezzi che mi sono piaciuti un bel po’: di Giorgio Kienerk Medusa, di Giovanni Prini la Primavera e di Renato Bertelli, La marchesa Casati in maschera di Medusa.
Aggiungo un bellissimo vaso di Alfonso Canciani e ancora altri meriterebbero di essere ricordati, per le forme e i colori davvero molto belli e testimonianza di una produzione artigianale italiana di eccellenza.
Notevoli l’Annunciazione e la Salomè di Giulio Bargellini ed Ofelia di Felice Carena, il Ritratto in giallo di Arturo Noci e L’attesa di Enrico Lionne, per me tutte scoperte come quella di Amedeo Bocchi, pittore parmigiano di cui sono esposte una Signora con cappello nero e il Ritratto di Renato Brozzi, davvero notevoli.
Per la scultura ho molto apprezzato La Sfinge di Leonardo Bistolfi e il Sogno di primavera di Pietro Canonica, Orfeo di Michele Tripisciano ed il Nudino femminile di Cesare Biscarra, La danzatrice di Nicola d’Antino, La vittoria del Piave di Arrigo Minerbi, la Fragilina di Emilio Quadrelli.
Sono rappresentate anche incisione, pittura decorativa, architettura: l’impressione che ne ho ricavato è che il periodo dello stile liberty abbia visto molta ricerca del nuovo e della novità.
Ho scoperto che il nome dello stile proviene da quello di un mercante, Sir Arthur Lasenby Liberty, che ha aperto un negozio di prodotti di alto livello ma destinati ad una vasta clientela.
Stile che si richiama alla natura tanto da far quasi scomparire gli angoli retti in favore delle volute leggiadre delle fronde e dei fiori, stilizzati e ridondanti o geometrici ed essenziali.
Liberty è per me sinonimo di aggraziato ma anche inquietante; in quel periodo colloco le avventure di Hercule Poirot, eroe ridicolmente ossessivo testimone di un’epoca di estrema raffinatezza e profondo malessere, ma, in fondo, un protagonista borghese.
Liberty o arte della borghesia, testimonianza di agiatezza, successo sociale a portata di mano per una massa fino ad allora inimmaginabile.
Il borghese arricchito ci tiene a possedere ed esibire i segni di un successo che lo colloca a un passo da quell’aristocrazia che in fondo invidia e che mai come allora si sta a sua volta borghesizzando come ci ha ottimamente raccontato George Mosse.
Gli oggetti liberty mi rimandano ai salotti della bassa borghesia, cui appartengo, che negli anni 60/70 avevano le sedie con la seduta protetta dal cellophane, quasi sacrari da aprire per ricevere e far schiattare d’invidia gli ospiti meno graditi o per certificare un raggiunto benessere con relativi status symbol da condividere con gli amici di pari livello sociale.
Nel liberty ci sta dentro un po’ di tutto come si arguisce dagli oggetti esposti, come se fosse un liquido che si adegua ai diversi contenitori.
Dai manifesti pubblicitari popolari (cioè borghesi) ai ritratti di qualità straordinaria, dalla pubblicità alle opere di Klimt.
La raffinatezza che raggiunge il liberty, estetismo esasperato, lascia un retrogusto amaro in bocca che mi rammenta un motto che risale a Galeno (nella versione con gli animali): post coitum anima tristis.
Il surrealismo che è evidente in alcune rappresentazioni, l’idea della donna vamp, la ricerca di un estetismo esasperato sono indizi di una crisi incipiente.
C’è troppo, almeno nel filone più “estetizzante” mentre in quello più contenuto, tipico ad esempio di molta arte funeraria, c’è la manifestazione chiara di un mondo in movimento, che non sa bene dove andare.
La vittoria del Piave di Arrigo Minerbi, autore amicissimo di d’Annunzio, mi pare che sia una testimonianza esemplare di come, in quel periodo, la ricerca del moderno, del movimento come essenza di una modernità incalzante, fosse in primo piano.
Ma un moderno che portava a cosa? Il movimento tanto esaltato dagli intellettuali dell’epoca che fine aveva?
La soluzione estetizzante mi fa venire in mente le opere di Egon Schiele che rivelano una terribile angoscia, che non trova soluzione, mentre quella modernista conduce dritto alla guerra, alla Grande Guerra.
Chiudo con le parole di Giacomo Contri: “La guarigione è correlata con il riconoscimento del fatto che il proprio caso si inscrive una tipologia-patologia che ha mille e mille casi analoghi:
di cui i sintomi sono solo una parte minore, mentre la parte maggiore è condivisa (“Cultura”) con il resto della popolazione, restando patologia.”
Queste poche parole sono, a mio parere, un ottimo criterio per apprezzare le opere in mostra, e non solo quelle.
Reggio Emilia, domenica 14 novembre 2016, XXXIII Domenica del Tempo Ordinario