Se il post pubblicato ieri, praticamente in diretta, era stato pensato in previsione, oggi posso farne il resoconto.
Innanzitutto l’intera giornata (salvo un piccolo inconveniente di cui farò cenno dopo) è stata splendida: per un verso uscire di casa è, per me, una misura salutare e di sopravvivenza, per un altro se ci si unisce anche il balsamo dell’incontro con vecchi e cari amici, il risultato è un giorno da non dimenticare (e che sarebbe auspicabile ripetere con modalità ovviamente diverse ma con identico spirito positivo).
Sono partito di buon’ora ed arrivato a Milano in leggero ritardo ma niente di significativo: l’obiettivo della mattina era la visita di una mostra a Palazzo Reale, dedicata a “Joaquin Sorolla Pittore di luce”.
Conosco ed apprezzo molto questo artista spagnolo, dai tempi delle mie prime visite in quella terra amata e assolata e quindi non volevo perdere l’occasione ma, giunto nella piazza antistante, ho scoperto che a fine mese (il 28 se non ricorso male) sarebbe terminata un’esposizione dedicata a Mario Sironi, presso il Museo del Novecento.
Considerato velocemente che Sorolla sarà a Milano fino a giugno, mi sono orientato verso Sironi, ma di questo parlerò in un altro post.
Terminata la visita alla mostra ed a gran parte del Museo del Novecento (che ho rivisitato con piacere), mi sono scapicollato, temendo di essere in ritardo, presso via Vizzola, dove sorgono i palazzoni dell’Università di Milano Bicocca.
Prima volta in assoluto che salvo sulla linea fucsia della metro e prima volta che mi trovo in quella parte di Milano del tutto sconosciuta.
Non ero in ritardo, fortunatamente.
Ho avuto allora il piacere di rivedere una cara amica, madre del figlioccio mio, che rivedo ogni volta con entusiasmo e la famigliarità di chi si è lasciato pochi istanti prima (la stessa cosa mi accade con alcuni amici della Romagna e sempre mi lascia colmo di stupore).
Con lei l’anziana madre che ho rivisto ed erano anni che non accadeva.
Poi l’incontro col mio figlioccio, vestito come un autentico dandy, con una invidiabilissima chioma fintamente arruffata (in stile Einstein ma molto più curata) da far invidia a chi ha detto addio ai capelli ormai da decenni.
Poi un baffetto assassino ed il fisico asciutto e slanciato fasciato da un bel vestito chiaro (unico neo: troppo sobrio, ma glielo perdono).
Visto da lontano e prima di poterlo riconoscere, avevo pensato, tra me e me: “ma chi è quel baldo giovanotto che avanza con apparente noncuranza, come fosse uscito da un quadro di Boldini o da un racconto di Huysmans o di Wilde?”
Era lui, il mio figlioccio, che ho abbracciato col giusto trasporto (il caldo non aiuta le effusioni) e con quella naturale ritrosia che sempre mi inibisce e imbarazza davanti alle esternazioni della commozione (che non so mai trattenere).
Assieme siamo andati al ristorante, dove abbiamo incontrato, a presidiare il tavolo del frugale pranzo, una deliziosa fidanzata, molto carina da ogni punto di vista, lei finalmente non sobriamente vestita ma agghindata per la cerimonia, che di lì a poco si sarebbe tenuta, con un gustoso abito rosa, finalmente un tocco di colore primaverile, che ne esaltava i tratti delicati.
Il pasto doveva essere frugale perché non ci si deve appesantire prima di dover declamare la propria dissertazione di laurea, davanti ad un’occhiuta commissione ed un pubblico attento e partecipe.
Casualità ha voluto che il menù proponesse piadine dai nomi esotici: Miramare, Rivabella, Viserba, Viserbella, Igea Marina, mi è parso di fare un salto di qualche centinaio di km verso la solatia Romagna; abbastanza scontata la mia scelta: piadina Viserba e acqua naturale.
Ci siamo poi spostati davanti all’ingresso dell’Auditorium, dove abbiamo pazientemente atteso l’apertura delle porte mentre ci giungeva la notizia che, se il pubblico fosse stato di numero ridotto avrebbero ammesso tutti quanti.
I presenti erano pochi quindi abbiamo atteso fiduciosi mentre sopraggiungeva anche l’altro mio giovanotto prediletto, il biondo, timido, dolcissimo, fantastico fratello del figlioccio (un dubbio amletico mi sorge: se sono padrino del figlioccio posso definirmi ziino del fratello del figlioccio?); anche in questo caso un affettuoso abbraccio sancisce e testimonia il piacere di rivederlo.
Ecco infine che, tanto atteso, arriva il momento clou; l’attesa è stata più snervante per me che per il protagonista (ricordo ancora con panico a mia discussione della tesi, nonostante ci fosse la rassicurante presenza dell’amatissimo e stimatissimo prof. Maurizio Malaguti, di venerata memoria).
Il Nostro è stato il secondo di otto, con una pausa di riflessione a metà e proclamazione finale, il che mi ha fatto temere di perdermi il momento più significativo poiché il tremo per Parma iniziava ad incombere.
La prima è una ragazza non proprio spigliatissima, che racconta una strana e intricata storia di una moneta portoghese del XVII secolo di cui ho capito che era composta di argento, rame e un po’ d’oro (che se devo laurearmi in fisica per scoprire quello, mi do all’ippica – scherzo in realtà – per dissimulare la mia abissale ignoranza) poi eccoci al figlioccio: con una bella voce profonda ma costretto dalla tirannia dei tempi a correre, espone con tranquillità (invidia invidia invidia) una tesi di cui l’unica cosa che ho chiara è il titolo (esperimento Juno) che lui pronuncia all’inglese mentre in me fa sorgere oscure risonanze (Junio Valerio Borghese, del famoso tentativo di colpo di stato del 1970).
Tutto si compie nel brevissimo lasso temporale di 10 minuti, abbastanza mortificante per chi ci ha lavorato mesi, ma coì va il mondo.
Degli altri non ho seguito nulla né trattenuto alcun ricordo se non quello di un baldo laureando, strabordante in un bell’abito di colore azzurro pastello di almeno tre taglie in meno rispetto a quella necessaria, che è salito sul palco con la grazia di un rinoceronte: a parte il pessimo gusto e la classe molto migliorabile, anche lui si è laureato, della qual cosa mi compiaccio.
Approfitto della pausa per uscire, senza rientrare per ascoltare gli altri 4; chiacchiero amabilmente fino a che non arriva il momento fatidico.
Rientriamo tutti in auditorium, il presidente della commissione spende due parole di complimenti, enuncia il voto finale e, senza alcuna solennità, dichiara tutto il gruppo: “dottore in fisica”, una roba davvero misera; mi sarei aspettato che almeno la formula venisse pronunciata di fronte a ciascun candidato singolarmente ma, tant’è, viviamo in tempi in cui la forma è svilita.
Me n’ero accorto da un ulteriore dettaglio: in una relazione ho notato che il relatore era nominato col solo titolo di professore, una cosa impensabile ai miei tempi, quando era d’obbligo utilizzare il titolo di “Chiarissimo professore”.
Riesco solo a stringere per un istante il mio figlioccio, a commuovermi il giusto per versare qualche lacrima, accomiatarmi da tutti e partire a passo veloce verso la stazione di Greco Pirelli, abbastanza squallida a dire il vero; vi sono arrivato giusto in tempo per vedermi partire il treno davanti al naso, mentre arrivavo affannato e sudato al binario 11.
Il treno successivo, in ritardo, mi ha portato a Lambrate e da lì fino a Parma, tranquillo e rilassato come sono sempre quando viaggio in treno, cosa che mi piace molto.
Giornata da incorniciare, con anche una conclusione positiva visti i netti miglioramenti di mia madre: è andato tutto davvero a meraviglia, come mai avrei sperato.
L’unico rammarico è stato quello di non essere potuto restare a festeggiare degnamente il mio super figlioccio, ma l’averlo visto proclamato dottore è stata già una sufficiente soddisfazione.
Sono grato per l’invito che ho ricevuto, onorato della partecipazione e fiducioso di rivedere leui e suo fratello quanto prima.
Un caro abbraccio a tutti e a ciascuno.
Milano, 23 marzo 2022 memoria di San Turibio de Mogrovejo