Alla fine l’ho letta, la lettera che che è stata scritta in gennaio 2011 per variare il giudizio sulla mia prestazione lavorativa dell’anno 2010.
Pensavo di arrabbiarmi e di nutrire sentimenti di vendetta, mi accorgo che non provo altro che una grande pena anche se, a dire il vero, mi sono anche scompisciato dal ridere.
La tragedia può scadere in farsa ed infatti Shakespeare, uno dei miei padri (mi permetto dei padri siffatti), le mischiava spesso: la tragedia qui mi pare il terribile crimen laesae maiestatis di avere avuto sempre un pensiero libero.
Dopo sei anni di lavoro fianco a fianco – avendo ben conosciuto il mio caratteraccio (scorbutico, antipatico scortese, scostante e sprezzante), i difettacci (sono un po’ sarcastico), la disistima verso taluni, la pigrizia e l’indolenza – mi pare un po’ tardivo accorgersene quando non sono più presente e non posso difendermi.
Mi ha pervaso un senso di pietosa commiserazione verso chi ha perso tante energie e tempo per scrivere un capolavoro letterario di accuse per variare un giudizio, inaudita altera parte: non era più semplice, economico, efficiente ed efficace imputarmi le mancanze rilevate? Ovviamente avrebbero dovuto essere reali e imputabili – cioè comportamenti materiali e imputabili (parlo dell’imputazione kelseniana de “L’uomo non è imputabile perché è libero: è libero perché è imputabile”) e avrebbero esposto anche il superiore allo stesso criterio di imputabilità (il grado cioè la gerarchia non esenta dalla critica, anzi).
Mi sono, però, anche divertito ed in particolare alla lettura delle mie citazioni impertinenti: approvo lo zelo documentario, e debbo dire che sono stato sottilmente lusingato nel mio narcisismo (lo sto correggendo ma con queste succulente tentazioni è davvero difficile non cedere) sapendo che adesso le mie birichinate ironiche o sarcastiche passeranno a futura memoria negli archivi, chissà forse anche nell’archivio storico per i secoli dei secoli, mi sento gravato di un onore ed una responsabilità immeritati: il ridicolo ci sopravvivrà.
L’occasione è, comunque propizia (dove abbonda il peccato la grazia è sempre possibile) e l’occasione mi stimola a riflettere ancora una volta su un tema che, da tempo, occupa i miei pensieri: l’equivoco della parola potere che mi si è chiarita ed è un chiarimento non intellettuale ma morale (mi sono trovato, varie volte, di fronte ad un bivio rispetto al quale era possibile decidere per una strada diversa da quella precedentemente elaborata) che debbo, come tantissimo altro, al Dottor Giacomo Contri che in anni non recentissimi scriveva: “Vediamo il Potere nel deserto dell’impotenza. Il Potere è la capitalizzazione dell’impotenza con risultati di prepotenza.” (da Sanvoltaire, Guardaldi, Rimini – Rebecca, il potere e l’impotenza)
Potere come sostantivo e potere come verbo cioè facoltà: il primo, nel nostro caso è il potere de noantri, da maso chiuso in cui si lotta per strappare un qualche brandello di una trama sfilacciata dalle mani dell’altro, un potere prepotente che presto o tardi provoca disastri come bene ci ricorda la famosissima favola della rana e del bue:
“Inops, potentem dum vult imitari, perit.
In prato quondam rana conspexit bovem
et tacta invidia tantae magnitudinis
rugosam inflavit pellem: tum natos suos
interrogavit, an bove esset latior.
Illi negarunt. Ruruns intendit cutem
maiore nisu et simili quaesivit modo,
quis maior esset. Illi dixerunt bovem.
Novissime indignata dum vult validius
inflare sese, rupto iacuit corpore.”
Questa la traduzione: “Chi non ha possibilità e vuole imitare il potente, finisce male. Una volta, in un prato, una rana vide un bue e presa dall’invidia di tanta grandezza gonfiò la pelle rugosa: allora interrogò i suoi figli chiedendo se fosse più grande del bue. Essi risposero di no. Di nuovo tese la pelle con sforzo più grande e chiese se fosse più grande. Essi (i figli) risposero: il bue. Infine indignata mentre si vuole gonfiare più fortemente, giace con il corpo scoppiato.”
Leggendo le dense righe di considerazioni sulla mia persona, mi sono venuti in mente vari personaggi: dal mio sempre adorato Amleto (“Anch’io sono onesto, pressappoco, eppure potrei accusarmi di cose tali che mia madre avrebbe fatto meglio a non mettermi al mondo. Sono orgoglioso, vendicativo, ambizioso, ho più peccati sottomano che pensieri in cui versarli, fantasie per dar loro forma o tempo per compierli. Perché gente come me deve starsene qui a strisciare tra cielo e terra? Siamo tutti dei furboni!”) a Grima Vermilinguo (personaggio di secondo livello del “Il signore degli anelli” divorato dall’odio verso il padrone che deve servire e di cui deve essere amico).
Grima Vermilinguo l’ho conosciuta (ops lapsus dovevo scrivere conosciuto) personalmente ed ho respirato l’aria pesante, infestata di recriminazione, invidia, melanconia: ne ho fatto scienza il che mi permettere di creare qualche anticorpo.
Altra suggestione è il Gollum del Tesssssoro così come la parodia hitleriana di Chaplin: mi viene in mente un neologismo che devo, ancora una volta, debito incolmabile (ed è bene avere debiti incolmabili, liberano, secondo me, dalla tentazione dell’autosufficienza e dell’invidia), al dottor Contri: guastatragedie.
Ecco, questa è l’impressione: guasta tragedie ovvero non mi faccio carico di astio, vendette, ritorsioni o chissà che altro: mi trovo a formulare un giudizio su ciò che mi è accaduto con scopo di profitto futuro.
La mia permanenza a Rimini è stata contrassegnata dalla presenza di alcune persone che mi hanno insegnato a lavorare, trattandomi come pari, correggendomi quando ho sbagliato, dando ordini sull’esecuzione del lavoro in un clima di grande professionalità (i risultati parlano da soli), cordialità, correttezza, stima e rispetto: mi riferisco, inutile nasconderlo ad Umberto innanzitutto, padre, fratello, collega, amico, compagno di avventure, ma parlo anche delle fantastiche ragazze che mi hanno accompagnato negli anni: da Silvia (per un anno abbiamo fatto servizio alle scuole senza prenderci una goccia d’acqua e sempre col sorriso sulle labbra) a Daniela (angelo custode dei miei impossibili cartellini, riposi, ferie ed errori vari), a Grazia e Roberta (mie consolazioni della vecchiaia) per passare ad Ivanello, Marco G., Vasco, Luigi, Francesco G., Andrea R. (sia l’isp che la burbetta), Davide, Roberta T., Maurizio, Mirko, Alessandra, Serena (anche qui sono due), Piero; ce ne sono tanti altri, anche di altri comuni, che ometto per non dilungarmi troppo: questa è stata la ricchezza che ho incontrato nei gloriosi anni di lavoro a Rimini, non è stata una lettera a rovinare tutto questo.
Non ritenendomi immune, sto imparando a smascherare le mie tentazioni sul Potere…