La brutalizzazione della politica tedesca è il titolo dell’VIII capitolo del libro di George L. Mosse che sto cercando di riassumere.
“Soltanto il valore militare mantiene un popolo giovane e virile”.
Dopo la fine del conflitto mondiale il mito dell’esperienza della guerra fu utilizzato come strumento di rigenerazione nazionale e personale.
Il prolungarsi in tempo di pace degli atteggiamenti bellici comportò un’accentuata brutalizzazione della vita politica ed una considerevole indifferenza per la vita umana e questo non solo in Germania dove permaneva un certo prestigio delle istituzioni militari: ovunque sussisteva un atteggiamento mentale, di origine bellica, derivato dall’accettazione della guerra, che eccitava gli uomini contro gli avversari politici e, al contempo, abbassava il livello di sensibilità comune nei confronti della crudeltà e della morte, come testimoniano i silenzi sui pogrom russi del 1919 contro gli ebrei o il genocidio armeno.
Inghilterra e Francia riuscirono a tenere sotto controllo il processo di brutalizzazione, grazie ad un tranquillo passaggio dalla guerra alla pace; in Germania questo non fu possibile a causa dei gruppi politici estremisti (di destra e sinistra) che riuscirono a mobilitare i propri sostenitori e a condizionare il dibattito politico e la sua attuazione; dopo il 1918 nessuna nazione sfuggì comunque ad un incremento di brutalizzazione e tutte videro un aumento dell’ attivismo politico e della criminalità.
L’aggressività verso il nemico, il desiderio di annientarlo ed il modo di rappresentarlo sembravano continuare l’esperienza bellica anche se, stavolta, il nemico era interno.
Vediamo dunque il caso tedesco che fu influenzato anche dalla guerra civile e dalla rivoluzione: durante la Repubblica di Weimar era ancora possibile un dibattito politico civile, era anzi la condizione stessa della democrazia, la capacità di mediare accordi, ma il dibattito fu influenzato dalle ali estreme che sfidavano continuamente la politica parlamentare.
La destra tedesca fu il gruppo più potente durante la repubblica, esso fece larghissimo uso di una propaganda e una politica aggressive e brutali, in grado di condizionare costantemente i lavori parlamentari; la destra, in tutto il continente, peraltro, si ritenne la depositaria del mito dell’esperienza della guerra.
La lotta politica venne sempre più considerata come una battaglia che doveva avere come logica conclusione la resa incondizionata dell’avversario.
La brutalizzazione della vita politica ebbe origine, in realtà, già nell’Ottocento, quando il vocabolario utilizzato durante i conflitti di classe era non meno sprezzante della vita e dignità dell’uomo di quello utilizzato durante il conflitto bellico verso i nemici.
Fu comunque dopo la fine della guerra mondiale che l’idea di conflitto assunse le tinte di scontro di forza.
Il processo di brutalizzazione ebbe particolare rilievo agli inizi e alla fine dell’esperienza repubblicana di Weimar.
Il fattore di brutalizzazione fu indubbiamente la guerra ma anche i rapporti che in essa e da essa erano scaturiti e precisamente i rapporti tra ufficiali e truppa e in seno alla truppa stessa: l’asprezza degli ufficiali, la passività dei soldati e la stessa crudezza della vita di squadra fecero in parte regredire le conquiste del processo di civilizzazione.
Da notare che molti di quelli che avevano decantato la guerra come l’espressione dei più alti ideali dell’uomo e qualcosa che permetteva all’uomo stesso di realizzare le sue potenzialità assunsero nella loro ideologia l’idea della brutalizzazione (ad esempio Ernst Jünger); questa miscela di alti ideali e brutalità non fu, comunque, patrimonio solo tedesco (vedi Henri Massis in Francia).
In Germania oltre alla brutalizzazione fu presente una tendenza a compiere esperienze al di fuori dei confini della civiltà contemporanea, un’aspirazione, quindi, al primitivismo, all’istintualità e alla violenza, considerati come dati di realtà autentici: già nel nazionalismo prebellico c’era stata una corrente che esaltava il primitivo e l’istintivo come le uniche forze autentiche, ma dopo la guerra questa idea si diffuse tra molti che avevano voluto mettere alla prova la loro virilità.
Lo psichiatra Otto Binswanger rilevò che dopo il primo anno di conflitto l’entusiasmo e la disponibilità al sacrificio avevano lasciato posto a odio e volontà di annientamento del nemico, distorcendo l’originale senso patriottico.
Partiti entusiasti e pronti al sacrificio, i soldati tornavano avendo scarsa considerazione della vita umana, segnati dal continuo incontro con la morte al fronte, che portò molti di questi ad una sorta di rassegnato stoicismo, di indifferente accettazione dell’ineluttabile.
Il culto dei morti non nacque in trincea dove, piuttosto, prevaleva l’indifferenza al destino proprio ed altrui.
Anche l’atteggiamento di fronte alla morte contribuì alla brutalizzazione, com’è ben visibile dall’atteggiamento nei riguardi della morte di un amico piuttosto che di un nemico: come la morte di chi aveva sacrificato la vita per la patria veniva circondata di venerazione, quella del nemico era resa il più ripugnante possibile.
Questo processo ebbe inizio con la rivoluzione francese e fu utilizzato per incitare la popolazione : da una parte si ebbe la solennità dei funerali dei martiri rivoluzionari e dall’altra a Luigi XVI e alle vittime del Terrore furono destinate fosse comuni e la calce viva (riservata ai poveri senza nome) e continuò con la letteratura otto e novecentesca che distingueva tra il decesso del bravo borghese e quello improvviso e sudicio dell’uomo rozzo.
La distinzione tra la morte di un amico e quella di un nemico non prese piede, dopo la rivoluzione francese, salvo pochi casi in cui le stesse autorità avevano aizzato l’odio contro le vittime; al contrario la Grande Guerra ed il periodo postbellico fecero della morte del nemico un elemento della generale opera di disumanizzazione.
La separazione tra amici e nemici era resa evidente al momento della sepoltura; se fino alla guerra del 1870/71 i soldati francesi e tedeschi potevano trovare anche sepolture comuni, dopo non fu più possibile ed anche questo fece il gioco della destra politica tedesca.
Un altro elemento che fu utilizzato dalla destra e che fu parte importante del mito dell’esperienza della guerra, fu il Mannesideal, l’ideale della virilità, che tanti tedeschi aveva sedotto fin dalle guerre di liberazione.
La guerra come invito alla virilità non fu esclusiva tedesca: in tutto il continente era diffusa l’idea che la guerra avesse creato un nuovo tipo maschile; fascisti e comunisti erano in cerca di quest’uomo nuovo da costruire sulle macerie del passato borghese, così come il soldato di prima linea aveva abbandonato il passato alle sue spalle.
L’affermazione di Schiller che soltanto il soldato è un uomo libero si tinse di avversione verso una ritenuta vacuità del mondo moderno.
Se lo stereotipo della virilità ebbe successo sia in Germania che in Inghilterra tuttavia solo nella prima fu spesso legata alla morte del nemico.
A ciò si aggiunse l’idea che il primitivo, cioè l’autentico, l’istintivo, desse al coraggioso l’energia e la spietatezza per vincere non solo in battaglia, ma in ogni ambito della vita.
Questo primitivismo non era, tuttavia, anarchico, al contrario doveva ispirare chiarezza di pensiero e risolutezza negli scontri: ne sono un esempio le iscrizioni sui monumenti ai caduti tedeschi che celebravano non più soltanto la vittoria (com’era ancora per le guerre franco prussiane), ma esaltavano la volontà stessa di combattere e questo era il patrimonio che si riteneva fosse lasciato alle nuove generazioni.
La virilità si manifestava concretamente nel cameratismo che sembrava fornire quell’ideale di comunione o affinità elettiva tipico di fine secolo, in opposizione all’artificiosità della vita borghese.
Cameratismo significava solidarietà tra commilitoni, tutti eguali per status, differenziati solo dalla leadership carismatica; questo cameratismo bellico, in cui ognuno doveva poter contare sull’aiuto del compagno, trasferito in tempo di pace, come parte del mito dell’esperienza della guerra, per un verso ricordava ai reduci l’antica esperienza e dall’altra faceva ipotizzare un assetto sociale ben diverso da una repubblica corrotta e preda di contrasti di classe e partiti politici faziosi.
Il cameratismo di un Männerbund avrebbe creato una nuova e potente nazione: questo ideale fu fatto proprio dalla destra che lo seppe indirizzare verso l’esterno (mentre fino al conflitto compreso era proiettato all’interno, come rapporto tra commilitoni), verso chi si opponeva alla rinascita di una nazione potente e combattiva.
I Corpi Franchi furono la continuazione in tempo di pace degli ideali del cameratismo: erano uomini e ufficiali che continuarono a combattere dal 1919 al 1921, nonostante la guerra fosse finita, e molti di loro erano giovani studenti e non reduci di guerra; i loro obiettivi erano schiacciare la rivoluzione interna (sostenuti dalla Repubblica), scacciare i bolscevichi dagli stati baltici e difendere l’Alta Slesia dai polacchi (sostenuti dal Reichswehr, l’esercito regolare).
Secondo un modello risalente alle guerre di liberazione, erano gli stessi ufficiali a reclutare gli appartenenti: i Corpi Franchi furono mitizzati come uomini veri uniti dal senso di cameratismo, insomma, il meglio della nazione, che peraltro si opponeva ad una Germania che aveva accettato un umiliante trattato di pace.
Questi uomini che si sentivano a torto o a ragione traditi dalla patria per cui combattevano, non avevano necessariamente un chiaro disegno politico, essi agivano in virtù di forza e volontà di azione; questi Corpi Franchi furono utilizzati dal nazismo che equiparò alcuni dei loro caduti (coinvolti nell’omicidio del ministro Rathenau) ai caduti in guerra.
Lo stesso spirito del cameratismo fu brutalizzato dall’uso che ne fece la destra; curioso un motto nazista a tal proposito: “L’ideale al di sopra di noi, il camerata accanto a noi, il nemico di fronte a noi”.
La distinzione tra morte dell’amico e del nemico fu utilizzata anche in tempo di pace: il Partito nazionale Tedesco, di destra, distingueva tra nemici “uccisi” e seguaci “assassinati”.
Gli omicidi politici erano giustificati con linguaggio patriottico preso a prestito dalla guerra e la stessa Repubblica di Weimar fu indulgente verso i crimini motivati appunto dal patriottismo.
Tutte le regole morali furono messe a dura prova ed aumentarono significativamente i delitti di sangue, motivati dalle condizioni economiche disperate e dall’abitudine all’omicidio derivante dalla guerra.
Fu la stessa Repubblica ad abbassare la guardia anche a livello legislativo: se nei primi anni repubblicani il potere di amnistia del presidente della repubblica aveva come limite i reati di sangue, dal 1928 si permise di ridurre la pena dell’ergastolo ed entro il 1930 tutti i partiti (ad esclusione dei soli socialdemocratici) chiesero l’amnistia totale (che fu poi concessa da Hitler nel 1933).
La legge aveva di fatto abdicato di fronte agli omicidi di coloro che erano ritenuti traditori dei gruppi paramilitari di destra, nonostante la Repubblica avesse approvato una legge che proteggeva i suoi esponenti e la stessa sicurezza repubblicana, questa tuttavia non fu mai applicata seriamente e venne lasciata successivamente cadere: l’idea prevalente era che dovesse essere tutelata l’autorità dello stato tedesco e non la costituzione repubblicana.
La brutalizzazione della vita politica non fu imposta solo dagli avversari della Repubblica di Weimar, essa aveva camminato anche dentro il sistema repubblicano stesso.
Questa brutalizzazione comportò anche la disumanizzazione del nemico, attuata attraverso stereotipi propagandati con la parola e le immagini; se gli stereotipi erano in circolazione sin dal Settecento, la guerra predispose ad un loro agevole accoglimento.
Già durante la guerra, e utilizzate da tutti, divennero molto comuni le storie di atrocità varie, poi caddero anche le remore all’utilizzo di tabù sessuali o sociali, mai fino ad allora sfruttati: così i nemici venivano accusati di uso brutale della forza (massacri, amputazioni, torture), di profanare quanto di più sacro (uso dei corpi per ricavare glicerina) e di compiere ciò che era sessualmente deviante (atti sessuali di ogni tipo), il tutto pubblicizzato con materiale visivo (che iniziò a prendere piede nell’Ottocento e fu largamente utilizzato durante la guerra) assai più efficace a livello di comunicazione.
L’odio del nemico era stato un tema largamente trattato fin dalle guerre della rivoluzione francese, quando, con la nascita dell’esercito nazionale era necessario dare motivi per combattere e rischiare la vita, tuttavia esso era limitato alle questioni in ballo e, normalmente non investiva mai i valori dell’avversario; con la prima guerra mondiale l’atteggiamento cambiò radicalmente: le nazioni, ritenutesi investite di un compito universale, pretendevano la resa incondizionata del nemico, che venne disumanizzato.
Il nemico divenne l’antitipo di ogni valore ritenuto positivo e la sua stereotipizzazione lo accomunò a tutti coloro che si discostavano dalle norme sociali e le ponevano in pericolo: ebrei, zingari, devianti sessuali; la prima guerra mondiale sfruttò antisemitismo e razzismo, che già dall’Ottocento si erano sviluppati, sotto la spinta di una maggiore uniformità sociale e sessuale (che perdurò anche per tutto il primo dopoguerra).
La brutalizzazione si ebbe anche in Inghilterra tuttavia essa non riuscì ad influenzare la vita politica e rimase senza incidenza, al contrario della Germania dove permeò l’intera vita politica.
La guerra spinse fortemente in direzione dell’uniformità, con l’esclusione di chi non era ritenuto conforme all’immagine sociale in auge; anche dopo la fine del conflitto, il ceto medio apprezzò molto le organizzazioni anche di massa (sociali o politiche) compatte e ben organizzate; tutto spingeva verso il bisogno di uniformità, di distinzione trai ruoli di amico e nemico.
Durante la guerra in Germania prese piede l’antisemitismo (che fino ad allora era stato assai più virulento in Francia, ove, invece, non venne accentuato), un ulteriore modo per segnare la distinzione tra società e nemici e di cui approfittò la destra, incoraggiata dal nazionalismo e dalla frustrazione crescente dovuta all’evoluzione del conflitto. Questo antisemitismo fu agevolato anche dalle condizioni economiche decisamente peggiorate che contribuirono ad alimentare tensioni sociali che negli altri paesi coinvolti nel conflitto non ci furono.
L’antisemitismo fu anche una propaganda inglese antiprussiana.
Al principio della guerra il kaiser Guglielmo II aveva dichiarato che non c’erano distinzioni di classe o religione e che egli riconosceva soltanto tedeschi; tuttavia nel 1916 fu ordinata una statistica sui soldati ebrei (che mai pubblicata fece pensare a oscure manovre di imboscati) che fu il preludio del successivo allontanamento degli stessi dall’esercito, operato nel dopoguerra, quando gli ebrei furono esclusi da qualsiasi fratellanza studentesca, organizzazione di reduci e dalla maggior parte dei Männerbund.
L’esclusione degli ebrei dallo Stahlhelm, l’associazione dei reduci tedesca fu un caso unico, in tutta Europa, di esclusione di vecchi commilitoni, che ebbe la logica conclusione in un decreto nazista del 1935, che vietava l’iscrizione dei nomi dei soldati ebrei sui monumenti ai caduti.
Antisemitismo e razzismo trovarono terreno fertile nella rinnovata popolarità delle teorie della cospirazione che avevano visto l’auge negli ultimi 20 anni dell’Ottocento quando la chiesa cattolica aveva proclamato la sua convinzione dell’esistenza di una congiura giudaico massonica mentre in Francia si fabbricavano, con l’aiuto della polizia segreta russa, i Protocolli degli Anziani di Sion, un sunto di una presunta cospirazione ebraica mondiale.
Durante il conflitto le teorie cospirazioniste alimentarono la propaganda bellica: gli inglesi avevano scritto dell’alleanza tra ebrei e tedeschi ma fu la rivoluzione bolscevica a far sospettare di un complotto ebraico quasi tutte le nazioni e a far accettare in Germania e Inghilterra i Protocolli in maniera acritica.
L’impennata razzista postbellica comunque fu dovuta in gran parte alle numerose crisi, economica, sociale e politica, che afflissero il passaggio da guerra a pace in Germania e fu un sintomo del processo di brutalizzazione.
L’impennata di razzismo antisemita fu accompagnata da una crescente violenza nel linguaggio e nelle rappresentazioni visive, così tipiche del processo di brutalizzazione; ad esempio furono utilizzate parole come Schädling (nocivo) per gli esseri umani mentre prima era riservata alle erbacce oppure Untermensch (sotto-uomo), applicato, dopo il 1918, a chi non accettava i dettami della destra radicale; la parola fanatico, infine, che prima aveva connotazioni negative, passò a descrivere eroismo e volontà di combattere.
Anche la meccanizzazione ed accelerazione della vita, imposta dalla guerra, influì sul linguaggio: il termine “materiale umano” fino ad allora considerato offensivo dello spirito dell’uomo, divenne di uso comune e fu indicativo di un’astrazione che era una spersonalizzazione (per Hitler gli ebrei erano un “principio”) che portava alla nascita o alla conferma degli stereotipi.
In guerra la distinzione amico nemico assunse caratteri più netti e contribuì alla formazione di masse più compatte; la logica manichea si manifestò anche nell’uso di aggettivi descrittivi, usati con ossessiva frequenza come gli slogan (è il caso di ebreo/ebraico e bolscevico).
La destra politica post bellica non si fece scrupoli morali nella lotta per il potere, anzi per molti la guerra era ancora in corso e forse la vittoria era ancora a portata di mano: la destra propagandò la guerra permanente e considerò il trattato di Versailles come uno sprone a continuare la lotta, ma lo scopo non era la continuazione della guerra, quanto piuttosto un mezzo per il conseguimento degli obiettivi politici ed ideologici, così come il razzismo non era solo un’ideologia contro i neri o gli ebrei, quanto un’ideologia sviluppata come il liberalismo o il conservatorismo.
La destra politica si basò un gioco di azione e reazione tra la brutalità incoraggiata dalla guerra (coi suoi cameratismo e virilità aggressiva) e gli ideali che sembravano promettere un futuro migliore per i tedeschi; metodi ed atteggiamenti furono pensati per l’epoca della politica di massa: la nazionalizzazione delle masse fu opera di movimenti dotati di specifiche dinamiche e che seppero utilizzare al meglio gli strumenti del mito e dei simboli.
La repubblica democratica non seppe inglobare nel proprio sistema di governo le masse che si affacciavano sulla scena e che la destra seppe meglio coinvolgere.
La guerra non creò le forze che si scatenarono, essa gli fornì solo nuova energia e mordente che le aiutò a vincere; la destra seppe vincere, senza scrupoli e ignorando i dettami della rispettabilità, come in passato non sarebbe stato concepibile.
La brutalizzazione fece sì che la gente si abituasse ad un certo livello di violenza verbale e visiva, che con l’avvento del nazismo divenne politica ufficiale del terzo reich.
Il mito dell’esperienza della guerra fu centrale nel processo di brutalizzazione poiché aveva trasformato la memoria della guerra rendendola accettabile ed offrendo al nazionalismo alcuni dei suoi miti e simboli postbellici più efficaci. Il mito tentò anche di prolungare la prima nella seconda guerra mondiale, stabilendo una continuità ininterrotta destinata a ringiovanire la nazione.
Nel 1939, però, non vi fu nessun entusiasmo per la guerra né una nuova generazione del 1914, malgrado gli sforzi compiuti dai nazisti e ciononostante l’atteggiamento verso la politica, la vita e la morte incarnati dal mito predisposero molti ad accettare l’ineluttabilità della guerra. Gli anni Venti e Trenta si nutrirono della guerra e nessun movimento pacifista fu in grado di affermarsi a fianco del mito dell’esperienza della guerra.