Ho partecipato oggi al funerale di Aurelio Calestani, deceduto sabato 14 giugno.
Uomo buono, cortese, sempre misurato, virtù che gli invidio.
Ai tempi in cui potevo permettermelo era anche il mio sarto.
Soprattutto padre e nonno di miei ottimi cugini.
Chiesa piena, omelia non banalmente impostata sulle virtù astratte di uno sconosciuto, Aurelio frequentava assiduamente la sua parrocchia e per questo di lui ha parlato il parroco, cosa non comune ai funerali.
Ho apprezzato, in particolare, l’affermazione che siamo noi a trasformare le esequie in funerali.
L’occasione mi ha suscitato alcune riflessioni sul mio stato di vita attuale: nessuna di queste è stata rassicurante.
Presso le camere ardenti, invece, una parente mi ha fatto sorridere perchè guardando la salma commentava, con una vicina: “è naturale da morire”.
Partecipando al rito funebre e pensando alla morte mi accorgo di quanto cammino ho ancora da fare per arrivarci preparato. Quando ci penso, libero dagli angosciosi fantasmi che accompagnano spesso, mi viene da pensare alla morte di Aragorn, protagonista di una delle opere che ho più amato negli anni, “Il Signore degli anelli”. Cito il brano per me struggente:
“Visse come Regina di Elfi e di Uomini per centovent’anni in grande gloria e felicità con Aragorn; ma egli un giorno sentì avvicinarsi la vecchiaia e comprese che i giorni della sua vita stavano per finire, per quanto lunghi fossero stati.
Allora Aragorn disse ad Arwen: “Ormai, Dama Stella del Vespro, la più splendida di questo mondo e la più amata, il mio mondo sta svanendo. Abbiamo raccolto, abbiamo speso, e ora si avvicina il momento di pagare”.
Arwen comprese ciò che voleva dire, e lo prevedeva da tempo; tuttavia, fu sconvolta dal dolore. “Vuoi dunque, sire, lasciare prima del tempo la tua gente che vive per la tua parola?”, ella disse.
“Non prima del tempo”, egli rispose. “Se non vado adesso, sarò presto costretto a partire per forza. Eldarion nostro figlio è pienamente maturo per divenire re”.
Aragorn si recò nella Casa dei Re in fondo alla Via Silente, e si distese sul lungo letto che era stato preparato per lui.
Disse addio a Eldarion e gli porse la corona alata di Gondor e lo scettro di Arnor; poi tutti lo lasciarono, all’infuori di Arwen, la quale rimase in piedi, sola, accanto al letto.
E, malgrado la sua saggezza e il suo lignaggio, ella non seppe trattenersi dal pregarlo di rimanere ancora per qualche tempo.
Non era ancora stanca dei suoi giorni, e sentì l’amaro sapore della mortalità che aveva scelta.
“Dama Undómiel”, disse Aragorn, “dura è invero l’ora, eppure fu decisa nel momento in cui ci incontrammo sotto le bianche betulle nel giardino di Elrond, ove nessuno più passeggia. E sul colle di Cerin Amroth, quando abbandonammo sia l’Ombra che il Crepuscolo, accettammo il nostro destino.
Rifletti, mia adorata, e domandati se preferiresti vedermi appassire e cadere dal mio alto trono, impotente e irragionevole.
No, mia dama, io sono l’ultimo dei Numenoreani e l’ultimo Re dei Tempi Remoti; a me fu data non soltanto una vita tre volte più lunga di quella degli Uomini della Terra di Mezzo, ma anche la grazia di partire volontariamente, restituendo il dono ricevuto.
Ora, quindi, dormirò”.
“Non ti dirò parole di conforto, perché per simili dolori non vi è conforto entro i confini del mondo. Ti attende un’ultima scelta: pentirti e recarti ai Rifugi, portando con te all’Ovest il ricordo dei giorni trascorsi insieme, un ricordo sempre verde, ma pur sempre soltanto un ricordo; o, altrimenti, attendere la Sorte degli Uomini”.
“No, mio amato sire”, ella rispose, “quella scelta è stata fatta ormai da molto tempo. Non vi sono più navi che mi porteranno sin là, e devo attendere la Sorte degli Uomini, volente o nolente: la perdita e il silenzio. Ma voglio dirti, Re dei Numenoreani, che sinora non avevo compreso la storia della tua gente e la loro caduta. Li deridevo come se fossero stupidi e cattivi, ma ora finalmente li compiango. Perché se questo è, in verità, il dono dell’Uno agli Uomini, è assai amaro da ricevere”.
“Così sembra”, egli disse.
“Ma non lasciamoci sopraffare dalla prova finale, noi che anticamente rinunciammo all’Ombra e all’Anello. In tristezza dobbiamo lasciarci, ma non nella disperazione.
Guarda! Non siamo vincolati per sempre a ciò che si trova entro i confini del mondo, e al di là di essi vi è più dei ricordi. Addio!”.
“Estel, Estel! “, ella gridò, e mentre gli prendeva la mano e la baciava egli si addormentò.”
A parte il finale misticheggiante, in fondo per i cristiani questo è la morte: un congedo con tristezza ma senza disperazione, mi piace, lo dico da sempre, l’idea del kairos, del tempo opportuno.
In fondo la morte non è che un giudizio sulla vita. giudizio di sazietà e di completezza.
Francesco, non credo a caso, la chiama sorella, e vi si abbandona tranquillamente.