Ecco il riassunto del dodicesimo capitolo del volume di George L.Mosse, di interesse come tutti i precedenti; qui si parla di passaggio dalla teoria del razzismo alla pratica dell’antisemitismo.
Ma non annoio oltre…
La fine della Grande Guerra ha rappresentato anche quella di tante difese che ancora proteggevano gli ebrei e, contemporaneamente, la democrazia nella forma del governo parlamentare concludeva la sua parabola offuscata da regimi dittatoriali all’est e da movimenti di massa nel centro ovest europeo.
La politica delle masse prevedeva liturgie pubbliche inadatte alle differenziazioni, le emozioni condivise grazie alla guerra on lasciavano molto spazio a chi non le potesse o volesse condividere e di questo il razzismo seppe approfittare.
All’inizio il razzismo prese piede, anche praticamente, in organizzazioni non governative come, ad esempio, in Germania, le confraternite studentesche, le organizzazioni degli ex combattenti e alcuni partiti politici, per trovare poi alimento nella grande crisi; furono, infatti, gli anni ’30 che videro lo scatenarsi della lotta antiebraica.
Nelle varie parti d’Europa la lotta agli ebrei ebbe diversi esiti; scarsi in occidente, ottimi al centro e non male in Europa orientale; si tratta ora di valutare nazione per nazione quale fu la penetrazione del razzismo ed i suoi esiti.
L’Inghilterra aveva contribuito all’elaborazione delle teorie razziste ma si era dedicata più ai neri e all’eugenetica che alla creazione di una nazione ariana; il fascismo inglese si dedicò poco agli ebrei fino al 1934 quando l’antisemitismo ottenne maggior vigore e aumentarono gli episodi di violenza, ma l’unione dei fascisti inglesi non seppe alimentarne la fiamma.
La crisi inglese del 1931 si risolse con un governo nazionale che mantenne intatte le strutture rappresentative tradizionali; al contrario della Germania, inoltre, furono vietati eserciti privati e le camicie nere rispettarono le leggi sull’ordine pubblico che vietavano l’utilizzo di uniformi e dimostrazioni politiche.
Se vi furono alcuni estremisti come Arnold Leese che propose, nel 1935, di gasare tutti gli ebrei, è vero però che nessuno di questi ebbe mai una qualche influenza politica, nemmeno quando in Germania la politica razziale assumeva i tratti più duri.
Come l’Inghilterra anche la Spagna non accolse più di tanto le istanze razziste: certamente vi fu una retorica antiebraica ed alcuni esponenti franchisti sentirono l’influenza dell’Action française ma il razzismo non sfondò ed anzi il confinante Portogallo ospitò alcuni ebrei tedeschi perseguitati.
Neppure la Francia, nonostante i presupposti, vide mai la vittoria del razzismo, ma in questo caso occorre considerate che questo non fu un paese sconfitto, dilaniato da rivoluzioni, controrivoluzioni e devastante inflazione, fattori che contribuirono a dare concretezza alle teorie razziste.
Vi furono vari gruppi di destra, il più importante dei quali fu, nel periodo tra le due guerre, ma nessuno assunse vero rilievo; dopo la prima guerra mondiale vi furono anche antagonisti dell’Action française: Charles Valois, proveniente dalle sue fila, fondò il «Faisceau» nel 1925 e altre leghe fasciste si susseguirono fino al 1936 quando Jacques Doriot, già esponente comunista, costituì il Parti populaire français (P.P.F.), ma nessuna ebbe fortuna politica reale.
Tra queste organizzazioni, inoltre, cominciò ad andare di moda l’antibolscevismo, come stava accadendo in tutta Europa; ne è un esempio lega Solidarité française,che seppure ostile agli ebrei lottava in particolare contro il bolscevismo: significativamente il suo fondatore, il grande industriale profumiero François Coty, foraggiava, anche l’Action française.
Quest’ultima, o almeno il suo fondatore, restava in ogni caso un riferimento per tutti questi movimenti, sebbene gli si dichiarassero antagonisti, salvo il caso del Parti populaire français di Jacques Doriot il cui capo proveniva dall’esperienza del partito comunista e che fu l’unico a portare il suo movimento a grandi dimensioni anche se mai superò la cifra di 250000 simpatizzanti.
Questo partito nacque a seguito di due eventi importanti, che parvero anche imprimere un diverso sviluppo al fascismo francese: il 6 febbraio 1934 vi fu una marcia sulla Camera dei deputati di associazioni di destra di reduci di guerra e dell’Action française e altri movimenti.
Nonostante imponenza e violenza della manifestazione la repubblica tenne ma questo spinse Doriot e non solo lui a spingersi all’opposizione; il secondo evento fu la nascita del governo del fronte popolare diretto da Léon Blum che concretizzò i peggiori timori: «la Francia è stata abbandonata nelle mani degli ebrei».
A causa di questo, Doriot propose l’amicizia con la Germania e divenne ammiratore dei loro nazionalsocialisti: se fino al 1937 il giornale di partito, «L’Emancipation Nationale», aveva trascurato gli ebrei,
eccetto quelli algerini accusati di infedeltà verso la Francia, interessato solo alle cospirazioni comuniste, l’antisemitismo assunse poi maggior rilievo, soprattutto dopo le vittorie tedesche e l’occupazione del territorio francese.
Maurice-Ivan Sicard, direttore del giornale, all’inizio aveva smentito propositi antisemiti o razzisti salvo vincere, nel 1944 il Prix de la France aryenne, fondato dal Parti populaire e chiedere l’espulsione degli ebrei dalla Francia il che, visti i tempi, significava la loro soppressione.
La Francia vide un fenomeno peculiare: mentre altrove il razzismo trovava concretezza politica, in questo paese rimase esclusivo patrimonio degli intellettuali, senza che i partiti di destra, come quello di Doriot, riuscissero mai ad avere qualche influenza.
Ci fu un gruppo di giovani scrittori, attorno al giornale «Je suis partout», nato nel 1930, che ammirava Drumont e Maurras ed esaltava la guerra; essi erano razzisti ma l’alto concetto di sé ed il patriottismo li inducevano a differenziarsi dai nazisti precisando che il loro razzismo antiebraico era più moderato e meno irrazionale di quello tedesco; il loro leader Robert Brasillac accusava i nazisti di avere trasformato la razza in un concetto metafisico, mentre lui considerava gli ebrei un popolo pieno di sgradevoli caratteristiche.
Specificità ribadita da un altro scrittore, Lucien Rebatet che nel 1938 dichiarava «noi non siamo razzisti» ma chiedeva, nel contempo, la separazione tra francesi ed ebrei.
Questi giovani autori confusero, in realtà, il razzismo con lo spirito nietzschiano: essi aspiravano a divenirne i superuomini, inneggianti alla violenza e gli ebrei erano un ottimo materiale su cui sperimentare.
L’autore francese più famoso, Louis-Ferdinand Céline, passò dalle preoccupazioni per la degenerazione all’appello al massacro degli ebrei e non fu l’unico, anche altri intellettuali aderirono al nazismo o al fascismo, come avvenne per il poeta tedesco Gottfried Benn.
Le sue poesie, intrise di immagini di decadenza, simili a quelle di Céline in
“Viaggio al termine della notte”, rivelavano l’aspirazione a quei valori assoluti che il nazismo sembrava offrire, assieme alla sensazione eccitante di far parte di un movimento di massa virile; Ezra Pound, che nel suo paese non aveva un fascismo di questo tipo, scelse di vivere in Italia, un po’ come i giovani e politicamente isolati scrittori francesi che dovettero cercare all’estero, magari dopo qualche breve esperienza nel movimento di Doriot.
La Francia restò, tutto sommato, abbastanza immune da razzismo e fascismo perché godeva di relativa stabilità, era un paese cattolico e rurale, poco incline ad accettare il movimentismo razzista, inoltre lo sciovinismo e l’idea della potenza francese collideva in modo inconciliabile con le grandi adunate di Norimberga, così il razzismo rimase un movimento intellettuale senza presa politica e sulle masse.
In Europa orientale la situazione ebraica non fu particolarmente negativa: la presenza di partiti di destra antisemiti, nemici dei governi, impegnati a tutela di legge, ordine e anche delle esistenti strutture politiche e sociali del potere, favorì la protezione ebraica; in Ungheria e Romania le dittature si basavano sull’alleanza con le tradizionali gerarchie sociali e politiche che non volevano mettere a rischio l’ordine costituito.
In questi paesi inoltre, i partiti comunisti erano stati messi al bando e la minaccia era il sovversivismo sovietico mentre il pericolo della rivoluzione veniva dalla destra radicale e non dalla sinistra radicale.
In Romania, ad esempio re Carol si proclamò dittatore per far fronte alle pressioni della «Legione dell’Arcangelo Michele», che aveva come scopo una dittatura sostenuta da contadini e operai; il relativo movimento di massa, la Guardia di ferro, considerava gli ebrei il simbolo della classe media romena sfruttatrice del popolo.
Gli ebrei costituivano effettivamente una parte della classe media mentre la Guardia di ferro era in gran parte composta da contadini, guidati da studenti, il cui leader era il giovane Corneliu Zelea Codreanu.
Codreanu era un nazionalsocialista, avversario del capitalismo finanziario e della corruzione (entrambi predominanti in Romania) che sperava nella rinascita nazionale intesa come sangue, terra e cristianesimo; pur non essendo razzista alla fine arrivò a credere che gli ebrei avessero intenzione di fondare in Romania una nuova Palestina, che avessero creato il bolscevismo e fossero gli sfruttatori e i sovvertitori della Romania.
Questo capo carismatico era un cristiano mistico e ascetico, che parlava sempre del sacrificio di Cristo e ne paragonava la risurrezione con quella della nazione; il suo razzismo era ambiguo ma la sua ammirazione per Hitler genuina: anch’egli considerava gli ebrei male assoluto.
Assassinato su ordine di re Carol nel 1938, la Guardia di ferro non ebbe più un capo all’altezza; il successore, Horia Sima, confidava in Hitler per portare al potere la Guardia e la cosa riuscì effettivamente, per alcuni mesi del 1941, quando, deposto re Carol, il nuovo dittatore, generale Antonescu, governò insieme con la Guardia di ferro (salvo poi farla fuori con l’aiuto tedesco): in quel periodo si registrarono feroci “pogrom” col massacro di almeno un migliaio di ebrei nella sola Bucarest.
Analoga situazione politica si ebbe in Ungheria dove il dittatore conservatore Nicolas Horthy aveva da temere, a destra, le Croci frecciate; in questo caso, però, il fondatore, pure lui un mistico sognatore dell’«ungarismo», Ferenc Szálasi, non ebbe forza sufficiente sebbene fosse riuscito ad attirare consensi soprattutto per l’idea di supremazia ungherese nel bacino danubiano.
Nell’«ungarismo» di Szálasi non mancava la condanna della razza ebraica ma questa non aveva quel posto preponderante che occupava invece nell’ideologia della Guardia di ferro ed in effetti Szálasi rifiutò la collaborazione nella deportazione ebraica dall’Ungheria. Il suo ruolo rimane comunque marginale poiché assunse il potere solo dall’ottobre 1944 al febbraio 1945, quando le armate sovietiche stavano già occupando il paese.
Ungheria e Romania videro destre numericamente consistenti anche grazie al fatto che non esistevano partiti marxisti, ma queste non riuscirono ad abbattere le dittature esistenti (conservatrici e non razziste, timorose com’erano di ogni cambiamento) così gli ebrei, seppur vittima di qualche persecuzione non furono oggetto di una sistematica politica antiebraica, almeno fino a quando la pressione tedesca costrinse i vari dittatori in quel senso.
Discorso ben diverso va fatto per la Polonia: dopo la dittatura di Piłsudski i colonnelli che succedettero seguirono una politica saltuariamente razzista, ma senza mai usare il termine «razza», in omaggio al cattolicesimo, e a volte incoraggiarono anche la violenza antiebraica.
Esemplare fu la politica ebraica: nei consessi internazionali ove si trattava dei rifugiati ebrei tedeschi, la Polonia insisteva sempre anche sulla «eccedenza di ebrei» presenti nel suo territorio, fornendo così il destro agli altri di rifiutare i profughi tedeschi, per via del timore di dover poi ospitare i presunti 3 milioni di polacchi.
Le zone dei Balcani dove l’Italia fascista esercitava la sua influenza furono più moderate; in Croazia gli ustacia di Ante Pavelic fomentarono i “pogrom”, ma quando rinchiusero gli ebrei nei campi, ne permisero la sopravvivenza e comunque tentarono di sottrarne un bel numero a queste misure restrittive.
L’Italia ebbe un atteggiamento simile: nell’ottobre 1938 Mussolini aveva promulgato le proprie leggi razziali che prevedevano divieto di matrimoni misti, escludevano gli ebrei dal servizio militare e proibivano loro di avere grosse proprietà terriere, tuttavia questa legge era inoperante per gli ebrei che avevano preso parte alla grande Guerra o al movimento fascista; significativamente coniò un motto che ben esprimeva il concetto: «discriminare, non perseguitare».
Personalmente Mussolini non era razzista né aveva un fardello ideologico totalizzante come Hitler, le leggi razziali, frutto di questa ambiguità, infatti volevano ridare dinamismo ad un fascismo consolidato al potere e mostrare amicizia verso la Germania: duplice fallimento perché l’Italia non aveva tradizione antisemita cui attingere e i tedeschi furono delusi dalla loro blanda applicazione.
Mussolini utilizzò da cinico politico il sionismo che valorizzò quando utile in chiave anti inglese o sfruttò come minaccia per gli ebrei italiani se avessero mantenuto una doppia fedeltà.
Il razzismo italiano, non ideologico, era nato con la guerra di Abissinia del 1935, diretto contro i neri e non contro gli ebrei; allora prese piede il concetto di razza e si stabilì che la fraternizzazione con gli indigeni equivaleva a mancanza di «dignità razziale», poi Mussolini cambiò rotta dopo aver sperimentato l’inutilità dei sionisti per la revoca delle sanzioni all’Italia: a quel punto pensò che le organizzazioni internazionali ebraiche gli si fossero rivoltate contro e si convinse perciò che la cospirazione mondiale ebraica contro il fascismo dovesse essere annientata.
Vi furono anche antisemiti convinti, come Roberto Farinacci, ma nessuno riuscì a creare un fronte unitario nazifascista contro gli ebrei, anzi generali e funzionari statali collaborarono per salvare dai nazisti quanti più ebrei fosse loro possibile.
I razzisti rimasero isolati fino alla repubblica di Salò: il capo dell’ufficio preposto alla questione razziale Giovanni Preziosi, il cui periodico, «La vita italiana», era diventato il portavoce dell’antisemitismo italiano; egli fu traduttore dei “Protocolli” e aperto assertore delle teorie sulla cospirazione mondiale ebraica, ma il suo ufficio non ebbe alcun potere perché a Salò comandavano i tedeschi e Preziosi ne fu solo un collaboratore.
Un altro importante teorico italiano del razzismo fu Julius Evola, interessato al mistero della razza e all’«anima razziale»; sostenitore di una pura razza italiana che creò copiando pedissequamente le qualità dell’ariano germanico, affibbiandole a una mitica «razza ariana mediterranea».
Il sogno di Evola era la nascita di un fronte comune europeo-ariano ed in questa logica egli considerò le S.S. come un'”élite” biologica ed eroica che paragonò ai cavalieri ghibellini; non ebbe nessun seguito ma comunque dopo la guerra restò convinto che gli ebrei fossero cospiratori e sovversivi.
Il futuro del razzismo in Europa era soprattutto legato al successo o al fallimento della Germania nazista; esso divenne politica ufficiale della Germania il 30 gennaio 1933 quando Hitler assunse il cancellierato del Reich; sebbene fosse un governo di colazione con il conservatore «partito del popolo tedesco» (D.N.V.P.) quest’ultimo utilizzò lui pure l’antisemitismo per mobilitare le masse e comunque uscì ben presto dal governo.
Giunto al potere Hitler iniziò subito la sua campagna, adottando misure viepiù severe, costantemente precedute da tentativi di eccitare le masse contro gli ebrei, in modo da far credere di essere lui a seguire la pubblica opinione e non di esserne l’istigatore; le prime misure erano volte a togliere loro la cittadinanza ma fu poi un crescendo continuo.
Goebbels, intanto, in un catechismo nazista del 1931, stabiliva delle analogie col mondo animale, secondo un classico e pernicioso metodo utilizzato dal razzismo; egli sosteneva che gli ebrei sono uomini, ma è anche vero che le pulci sono animali, tuttavia non tutti gli animali sono utili ed infatti le pulci non vengono protette o nutrite, ma rese innocue.
All’inizio sembrò che Hitler intendesse attuare il programma ufficiale nazista, limitandosi ad escludere gli ebrei dalla vita tedesca, il che creò confusione sia tra i tedeschi che tra gli ebrei tanto che trovò facilmente dei collaboratori, cosa che non accadde, invece, per la «soluzione finale»; ne fu un esempio Baldur von Schirach, capo della gioventù hitleriana, che protestò assieme alla moglie contro la deportazione degli ebrei dopo che la signora von Schirach aveva assistito per caso a un rastrellamento di ebrei in Olanda.
La politica antiebraica progredì con lentezza tanto che alcuni ebrei, nel ’35 tornarono in patria, ingannati dalla propaganda e probabilmente molti tedeschi mai avrebbero immaginato uno sterminio di massa nell’illuminato XX secolo, anche se questo non giustifica chi prese parte alle fasi iniziali della persecuzione.
L’agire di Hitler non fu lineare; pur ossessionato dagli ebrei, sapeva procedere lentamente e con accortezza; egli, ad esempio, scelse la versione più moderata delle famigerate leggi di Norimberga del 1935, sfruttò con abilità il tempismo politico come faceva anche per la politica estera, fingendo di agire perché provocato o spinto da circostanze quali, ad esempio, l’assassinio del diplomatico tedesco Ernst vom Rath, compiuto a Parigi nel 1938 da un giovane ebreo, reazione che avrebbe portato alla tristemente famosa Kristallnacht.
L’idea di Hitler di «spazio vitale» e di sterminio costituivano due facce di un medesimo disegno: un territorio dell’est con popolazione locale schiavizzata avrebbe potuto costituire il luogo ideale per eliminare gli ebrei, evitandosi le possibili lamentele in patria dove la campagna di eutanasia aveva dovuto subire, almeno formalmente, delle interruzioni a causa delle proteste.
Quindi conquista della Polonia e soluzione finale erano un’unica efficiente scelta; le sue scelte furono frutto della sua elaborazione di cui sono pochi erano a conoscenza; Hitler fu il fulcro delle teorie razziste ed è bene capire a quali fonti si fosse abbeverato.
Hitler fece proprie le idee razziste a Vienna, dove circolavano abbondantemente, poi furono rafforzate da amicizie stabilite dopo la guerra ed arricchite, infine, a Monaco dopo il ’18.
A Vienna erano disponibili: il movimento di Lueger, di cui Hitler vide la fase finale, i più violenti pan-germanisti di von Schönerer, le sette razziste che alimentavano il «mistero della razza»; se del cattolicesimo di Lueger non c’è traccia, furono invece influenti le sette di Lanz von Liebenfels e Guido von List, divulgatori di una miscela di razzismo e teosofia.
Probabilmente Hitler ne conosceva le opere poiché, in conversazioni di molto posteriori, egli batteva sempre sullo spiritualismo, sulle scienze occulte e sugli ebrei definiti «il principio del male» e non giudicati creature di carne e sangue; al contrario ignorava certamente le teorie della scienza della razza.
Tutte idee abbastanza diffuse dopo la guerra di cui Hitler potrebbe avere preso visione attraverso i prestiti dall’Istituto nazionalsocialista – una biblioteca circolante fondata nei dintorni di Monaco tra il 1919 e il 1921 da un vecchio membro del partito – comprende tutte le opere principali sul razzismo: Houston Stewart Chamberlain, Richard Wagner, Langbehn e almeno tre libri di Max Maurenbrecher, che era un razzista “volkisch” ostile sia agli ebrei che alla Chiesa cristiana.
Vi erano inoltre molti titoli dedicati ad eroi tedeschi dipinti nel loro presunto odio antiebraico, del tipo «Lutero e gli ebrei» o «Goethe e gli ebrei»; vi erano ancora un’annacquata versione del “Talmud-Jude” di Rohling, libri sulla socialdemocrazia come movimento ebraico e il volume di Nicostenski “L’estasi sanguinaria del bolscevismo” (“Der Blutrausch des Bolschevismus”). Oltre al libro di Treitschke sugli ebrei vi era un interessante romanzo di Émile Zola “L’Argent”, in cui viene dipinto lo stereotipo dell’ebreo capitalista.
A Hitler, perciò, doveva essere nota la più comune letteratura razzista, tranne quella con pretese scientifiche.
La maggior parte delle letture di Hitler era comunque dedicata alla storia medioevale austriaca e tedesca o a problemi contemporanei visti in ottica di destra, niente a che fare con gli ebrei insomma, letture comunque di scarsissimo valore.
Più delle letture ebbe influenza l’incontro, a Monaco con Dietrich Eckart, commediografo e giornalista secondo il quale l’ebreo era il principio del male, il responsabile della sconfitta tedesca, del bolscevismo e della censura sugli scritti dello stesso Eckart, che riteneva dovessero avere maggior fortuna.
Eckart era amico di Alfred Rosenberg tramite il quale aveva incontrato i “Protocolli dei saggi anziani di Sion” che probabilmente prestò ad Hitler; tutti e tre questi amici condividevano l’idea che i “Protocolli” fossero strumento indispensabile per conoscere gli ebrei e i loro vari alleati bolscevichi, socialisti e liberali.
L’idea di Eckart, però, non prevedeva alcun uso della forza contro gli ebrei: essi dovevano tornare nei ghetti ed essere esclusi dalla vita tedesca ma la loro presenza era indispensabile come elemento di contrasto e di stimolo per gli ariani.
Insomma il programma di sterminio pare sia elaborazione esclusivamente hitleriana: in quegli anni Hitler era isolato, ma a differenza di profeti, studiosi e poeti, egli aveva senso pratico e fiuto politico, sapeva unire tattica politica e compromesso pur di arrivare al potere.
La presa del potere del ’33 apriva la strada alla realizzazione del programma nazista, col razzismo ora alleato con la morale della classe media e con le forze della legge e dell’ordine che poteva sperare in un roseo futuro, visto che i nazisti e i conservatori promettevano la restaurazione dell’ordine e il rafforzamento della morale e del decoro nella vita pubblica e privata.
Il razzismo allora poteva sembrare un utile baluardo della moralità, della legge e dell’ordine contro i principi negativi del bolscevismo, del comunismo e degli ebrei così che anche chi non era antisemita poté accettare gli iniziali primi provvedimenti moderati contro gli ebrei.
I nazisti seppero condurre una politica, dopo il gennaio 1933, che esprimeva sentimenti già da tempo diventati generali e dai quali era aliena nemmeno la sinistra; comunisti e nazisti avevano collaborato nel famoso sciopero dei lavoratori dei trasporti di Berlino del 1932, ma ancor più significativo, il partito comunista aveva cercato, già in precedenza, di contrastare l’ascesa nazista facendone propri alcuni temi nazionalisti di attrazione.
Il razzismo si era consolidato al punto che i socialdemocratici negli ultimi anni della repubblica esitavano a presentare ebrei per cariche pubbliche, mentre i comunisti li eliminarono quasi completamente dal loro comitato centrale.
La politica antiebraica nazista si connotò, agli inizi, per la prudenza: l’indebolimento ebraico doveva arrivare attraverso misure legali o amministrative; vi furono episodi di violenza da parte delle S.A. ma queste non erano ben viste da Hitler che non apprezzava l’irrequietezza delle S.A. che avrebbe potuto disturbare i suoi piani.
La strategia hitleriana si mosse per tempo: il 01/04/1933 vene stabilito il boicottaggio delle attività economiche ebraiche, anche se varie corporazioni e giornali ebrei ne furono esentati; questo permise un altro tassello su ben diverso fronte, l’allontanamento degli avvocati e dei giudici ebrei dai tribunali tedeschi;venne poi adottata una legge che prevedeva l’esclusione degli ebrei da ogni ufficio statale.
Malgrado le iniziative centrali, ogni singolo stato tedesco aveva la facoltà di adottare altre misure, più o meno severe; restava chiaro, comunque, ai funzionari del ministero degli Interni ostili al razzismo che nulla poteva essere fatto in favore degli ebrei, salvo tentare di proteggere solo coloro che avevano contratto matrimoni misti o erano di sangue misto.
La strategia hitleriana era tale che il 15/09/1935, alla vigilia della promulgazione delle leggi di Norimberga, «leggi a protezione del sangue tedesco», l’unica cosa certa era che Hitler si opponeva al terrorismo diretto contro singoli ebrei e che si era impegnato a escludere gli ebrei dalla vita tedesca; nulla si sapeva di cosa si definisse ebreo e se, nella questione ebraica, intendesse realizzare il programma ufficiale del partito o chissà che altro.
Le leggi di Norimberga, nella versione più moderata, scelta da Hitler, prevedevano la proibizione agli ebrei di sposare o avere relazioni extraconiugali con ariani, avere persone di servizio ariane o battere bandiera tedesca; queste secondo il Führer erano le sue decisioni definitive in materia, salvo smentirsi subito dopo, esattamente la stessa tecnica utilizzata in politica estera e molto valida per creare confusione e sconcerto negli avversari oltre che tra gli ebrei e pure tra i tedeschi.
Mancando una definizione di ebreo c’era la speranza che della legge venisse data un’interpretazione morbida, ma questa ambiguità era voluta da Hitler che la intendeva, ovviamente, all’opposto; la questione venne comunque risolta dai burocrati: era ebreo chi aveva almeno tre nonni ebrei; con due nonni soltanto per essere ebreo necessitava il matrimonio con un’ebrea e l’appartenenza alla comunità religiosa; gli altri sangue misto erano cittadini del Reich a pieno diritto, e persino se un tedesco si fosse convertito al giudaismo, avrebbe mantenuto la sua cittadinanza.
Questa apparente generosità sembrava mostrare che fosse già sopraggiunto il culmine delle misure ostili anche perché, salvo i liberi professionisti, non erano state adottate misure particolari per indebolire la posizione economica della maggioranza degli ebrei tedeschi; erano stati espropriati i beni, tra il ’33 e il ’37, di alcuni ebrei potenti e molto in vista, per lo più proprietari di giornali e di grandi magazzini, ma la maggioranza dei commercianti ebrei, nonostante il boicottaggio del ’33, continuava a lavorare.
Qualche segnale inquietante, però, non mancava, ma non fu colto: nel settembre 1935 fu compilato un elenco completo degli ebrei viventi in Germania, cittadini tedeschi e stranieri, senza il quale la soluzione finale non si sarebbe mai potuta realizzare.
Elenchi compilati da Himmler e dalla Gestapo, segnale inquietante perché stava a indicare un passaggio importante: la politica ebraica stava transitando dai deboli ministri degli Interni e della Giustizia in quelle della polizia segreta, delle S.S. e di Heinrich Himmler.
Anche la legge per la prevenzione delle malattie ereditarie del luglio ’33 fu un segnale: essa non si limitò a recepire i motivi ispiratori della campagna a favore dell’eugenetica, ma avrebbe condotto all’eutanasia, eutanasia di cui Hitler aveva parlato privatamente quando vennero promulgate le leggi di Norimberga.
Fu il periodo tra fine del 1937 e inizio del 1938 che vide un brusco cambiamento, in concomitanza con un rafforzamento generale del regime.
Usciti dal governo e dal Comando supremo dell’esercito gli ultimi conservatori, Hitler comincia a svelare i piani segreti di guerra (il Protocollo Hossbach) e a pensare di accelerare l’espulsione degli ebrei dalla Germania, dove avrebbero potuto costituire una quinta colonna della «cospirazione ebraico-bolscevica» .
Esemplare fu un frammento di discorso che tenne il 29 aprile 1937: «Non voglio costringere l’avversario a combattere… Invece gli dico: voglio annientarti! Poi la mia abilità mi aiuterà a metterti con le spalle al muro in modo che tu non possa colpirmi, mentre io potrò trafiggerti il cuore»; in esso si rivelava chiaramente l’intenzione del Führer di mettere sotto controllo la cospirazione ebraica.
Verso la fine dell’autunno del ’37 la politica hitleriana si rivelò per quel che era, senza più compromessi o ambiguità; leggi su leggi chiarirono rapidamente ogni dubbio lasciato irrisolto in precedenza: gli ebrei non ebbero più la possibilità di giovarsi degli sgravi fiscali e degli aiuti statali che in caso di necessità erano loro concessi, e alla fine furono espulsi da tutte le professioni.
Passo importante, poi, fu l’«arianizzazione» dell’economia, messa sotto il controllo di Hermann Göring; in questo caso fu colpita tutta l’economia ebraica, dalle banche ai negozi di vendita al minuto, e fu accompagnata da azioni locali di boicottaggio come quelle augurate da Julius Streicher a Norimberga.
L’opera continuò con la legge del 28 marzo 1938 che toglieva alle istituzioni religiose ebraiche la protezione legale, un modo per dire agli ebrei che avrebbero perso la personalità giuridica e la sicurezza personale; di fatto e giuridicamente ora si trovavano legalmente senza diritti e fuori legge.
Nel frattempo i tedeschi avevano tentato di favorire l’emigrazione ebraica, senza grandi risultati sia perché gli ebrei stessi erano restii a partire sia perché erano falliti i tentativi per il trasferimento dei beni stipulati con la Palestina e con alcuni paesi dell’America latina, come l’Argentina e il Cile; si tentò allora l’emigrazione coatta e fu stabilito che gli ebrei non potessero portare con sé alcuna proprietà, tranne solo 10 marchi a persona, e si lasciò che gli accordi per il trasferimento dei beni cadessero in prescrizione
L’espulsione cominciò con gli ebrei apolidi, poi con quelli polacchi: il 28 e 29 ottobre la Gestapo arrestò 15000 ebrei polacchi e li ricacciò al di là della frontiera dove, però, i polacchi non volevano questa «eccedenza di ebrei», che furono costretti a vivere per un certo periodo nella terra di nessuno, fino a che, alla fine, la Polonia li accolse.
Il messaggio era chiaro: gli ebrei si trovavano ed essere senza uno stato che li accogliesse, rifiutati da tutti, quelli polacchi, poi, erano stati rifiutati o perseguitati già a partire dal 1919; per Hitler questi erano il vero volto del giudaismo mondiale di cui quelli più assimilati erano solo una quinta colonna.
Il 5 gennaio 1938 il Führer ordinò che ogni ebreo assumesse il prenome di Israel o Sara, così tutti diventavano uguali sia i poveri emigranti dell’Est europeo, sia le vecchie famiglie ebraiche tedesche, e perciò tutti, non solo i polacchi o gli apolidi, furono costretti a vivere sino in fondo il proprio stereotipo, a vivere sulla terra di nessuno.
Due eventi accelerarono poi le misure antiebraiche: l’Anschluss con l’Austria che portò in dote un gran numero di ebrei e l’omicidio di un diplomatico tedesco a Parigi, Ernst vom Rath, da parte di Herschel Grynszpan, un giovane ebreo i cui genitori erano tra quei polacchi espulsi sulla terra di nessuno.
In Austria fu Hitler in persona che dettò le misure antiebraiche: immediata introduzione della legislazione vigente nel Reich, abrogazione dello status speciale degli ebrei di sangue misto, ai quali in Austria fu ritirata la cittadinanza a loro invece conservata nel Reich dopo la promulgazione delle leggi di Norimberga, eliminazione di ogni trattamento speciale agli ebrei che avevano combattuto nella prima guerra mondiale.
Con l’unione all’Austria il cerchio si chiudeva definitivamente ma ancora una volta non tutti se ne accorsero, accecati dalla prospettiva dell’unione nella grande comunità germanica come si vide nel caso esemplare dell’arcivescovo di Vienna, cardinale Theodor Innitzer: nel 1933 egli si era rallegrato perché «la voce del sangue del “Volk” germanico» tornava a farsi sentire, ma tre anni dopo aveva condannato pubblicamente il razzismo. Ciononostante egli ora accolse con entusiasmo l’Anschluss ed ebbe dei ripensamenti solo quando fu attaccata la Chiesa ed era ormai troppo tardi per agire.
L’omicidio di vom Rath fornì a Joseph Goebbels l’occasione per scatenare tumulti antiebraici; lui che era stato escluso dalla formulazione della politica ebraica organizzò la tristemente famosa «notte dei cristalli», Kristallnacht, nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938, anniversario del fallito putsch di Hitler del 1923; in quell’occasione tutte le sinagoghe tedesche ebbero distrutte le finestre, devastati gli interni e molte vennero arse; alla fine 30000 ebrei furono rinchiusi nei campi di concentramento di Dachau e Sachsenhausen.
Hitler fu favorevole all’iniziativa che aveva visto coinvolti gli ebrei più ricchi, che, peraltro, se in possesso delle carte di emigrazione erano lasciati liberi; la «notte dei cristalli» era stata comunque un precedente importante che aveva visto, inoltre, uno scontro interno ai gerarchi nazisti.
Göring e Himmler, infatti, si erano lamentati, anche se per motivi diversi: il primo perché vedeva distrutti beni del valore di milioni di marchi di cui avrebbe potuto liberamente disporre, il secondo perché temeva intoppi nel suo piano di sterminio e per via della concorrenza che gli veniva da Goebbels nella lotta per il potere.
In realtà Göring ebbe il denaro che cercava, dato che i danni furono fatti pagare, con una forte tassa, agli stessi ebrei; per di più l’arianizzazione che sino allora era stata concessa a caso, fu ora formalizzata in un lungo elenco di attività vietate una volta per tutte agli ebrei. I loro conti in banca e investimenti furono confiscati.
Anche Himmler ebbe la sua ricompensa: gli ebrei divennero competenza delle S.S. e Reinhold Heydrich si assunse la totale esecuzione della politica ebraica
Lo scontro tra Göring e le S.S. non si risolse perché nel 1939 gli uomini di Himmler e Heydrich ne volevano l’immediata espulsione, mentre Göring, che aveva la direzione generale della politica ebraica in quanto capo nominale della polizia segreta, voleva la loro reclusione nei ghetti.
Hitler li tenne a freno in attesa di un nuovo rilancio e rivelò anche l’obiettivo finale; in un discorso del 30 gennaio 1939, ne proclamò l’annientamento; essi avevano sconfitto la Germania nella Grande Guerra per cui era bandita verso di loro ogni forma di clemenza: «Oggi voglio essere ancora una volta profeta: se il capitalismo ebraico internazionale in Europa e fuori di essa dovesse ancora una volta riuscire a gettare le nazioni in guerra, allora il risultato sarà non la bolscevizzazione della terra, ma la distruzione della razza ebraica in Europa».
Hitler profetizzava quel che avrebbe realizzato; riprendendo il mito di Aasvero, l’ebreo errante che vuole distruggere la Germania con il bolscevismo e che è in attesa di rallegrarsi per la devastazione dell’Europa.
Agli ebrei fu data la colpa della guerra scatenata da Hitler, questi, avendone colpa, dovevano pagarne il fio con l’annientamento.
Come ha scritto Joseph Goebbels il 16 novembre 1941, gli ebrei avevano voluto la guerra e ora l’avevano.
Hitler era stato abile ed aveva fatto cadere il nemico nelle sue stesse reti. Così, prima dello scoppio di una guerra tanto terribile, gli ebrei dovevano essere preparati per la distruzione, ma non dovevano essere ancora distrutti. L’opera di annientamento sarebbe cominciata dopo la conquista della Polonia.