Giorni di intenso lavoro, che mi hanno particolarmente provato; questo non mi ha impedito di cogliere alcuni pettegolezzi, giuntimi all’orecchio dai tanti colleghi che conosco in giro per la regione e non solo.
Il primo è un aneddoto alquanto simpatico: in sede di concorso, prova preselettiva, si tratta di rispondere ad una serie di quiz.
Viene consegnato un foglio per le risposte ed il presidente di commissione si raccomanda di rispondere evidenziando le caselle con il segno grafico della croce e non con un puntino.
Dal gruppo degli agitati concorrenti si alza una mano ed una domanda mette a dura prova la preparazione della commissione esaminatrice: “ma la croce come deve essere?”
Effettivamente esistono svariati tipi di croce, da quelle più comuni, latina, greca, di sant’Andrea, a quelle più elaborate e meno comuni del tipo di Calatrava, gigliata, gemmata, tripla (o papale), doppia (o patriarcale), di Malta, di san Giacomo Maggiore, fino, ancora ad alcuni tipi di origine pagana e connotate da rimandi storicamente tragici come la svastica o la croce celtica.
Aggiungerei anche che l’indicazione della croce come simbolo grafico da utilizzare è perlomeno discriminatoria perchè potrebbe creare notevole disagio in chi non si riconosca nella cultura di origine cristiana.
Insomma, durante la prova di concorso per scegliere un impiegato di categoria D, profilo per cui è richiesto il possesso di una laurea, è emerso un problema di siffatta vitale importanza che potrebbe dare la stura a valanghe di ricorsi e fors’anche a una guerra di religione.
Questo è un episodio gustoso, da barzelletta, gli altri sono tutti connotati da una certa cupezza, mi limito a riportarne uno, raccontatomi di recente: in un elenco di persone, stilato in base all’anzianità del servizio prestato in un certo ufficio, c’è un errore.
Due degli elencati sono stati invertiti e la cosa è andata avanti per anni, senza problemi manifesti; in occasione di un’assenza del capoufficio, con un tono di irosa recriminazione, dichiarando di farlo per una questione di principio, il secondo ha lamentato la sua “retrocessione”, chiedendo, appunto per questione di principio, che venga ripristinato l’ordine di anzianità.
Mi è stato spiegato che quell’elenco non ha altro valore che di rendere conoscibili i turni di ciascun addetto, quindi la posizione all’interno dell’elenco non ha alcun significato o rilievo particolare. La tensione si tagliava col coltello.
Un altro brano da un colloquio sentito personalmente; la scena è tra il padre di una ragazza liceale e due suoi conoscenti; il padre lamenta che quest’anno la figlia deve studiare filosofia e che, interrogata, ha preso 5; l’uomo prosegue raccontando che la ragazza è stata interrogata sui sofisti che, riferisce, sarebbero quelli che parlano molto.
Secondo quest’uomo, i soldi spesi per la cultura sono soldi buttati.
Inutile dire che entrambi gli episodi vedono protagonista il pollaio, cioè la grettezza di pensiero.
Alternativa di civiltà alla civitas. In alternativa c’è stato un piacevole colloquio.
Ho avuto occasione di scambiare varie battute con un giovane, entusiasta, collega che presta servizio in provincia: si tratta di un simpatico giovane uomo, leggermente sovrappeso, leggermente stempiato, leggermente evanescente (da tradurre: con la testa tra le nuvole), leggermente sportivo.
Il simpatico giovanotto alcuni giorni fa mi ha detto: “tu che odii tanto gli psicologi, saresti un ottimo professionista”, al che ho ribattuto che non odio nessuno e che considero la figura dello psicologo come una tentazione narcisistica; gli ho citato, a paragone, Tiresia, come il detentore di un sapere ottenuto e posseduto per arcane congiunture, rispetto al quale gli uomini possono soltanto porsi in condizione di obbedienza.
Il colloquio con questo ragazzo mi ha fatto tornare in mente un paio di considerazioni che sto ruminando da tempo:
la prima riguarda lo psicoanalista come guastatragedie,
la seconda, sempre relativa allo psicoanalista, lo individua come uno che “sa di non poter fare il bene che pure conosce”.
Lo psicologo, per quel che ne so io, che sono ignorante in materia, è uno che presume di sapere il bene e lo propina all’altro, glielo svela, una sorta di direttore spirituale non laico, perchè la laicità è ben altro, ma senza tonaca, non per questo meno religioso.
Al contrario “L’analista non può fare il bene, eppure lo conosce”, è uno che rinuncia all’illusione della cura (curare è uno degli impossibili freudiani).
L’analista non è un educatore, né si va da lui per curare la malattia; mi viene in mente che qualcuno, tempo addietro, una volta mi disse: “visti i tuoi studi (le mie frequentazioni ai simposi della Società amici del pensiero), mi stai psicoanalizzando”.
Non avrebbe potuto dire bestialità peggiore.
L’analista, infatti, non agisce mai attivamente ma soltanto in forma passiva, lasciando che altri prenda l’iniziativa e sostenendolo in questo pensiero, senza obiezione riguardo agli argomenti trattati, con supporto di quel di positivo che ne possa venir fuori.
Psicoanalizzare, come iniziativa dell’analista, quindi, è una contraddizione in termini.
Fare una diagnosi è un altro fraintendimento del lavoro di analisi poiché l’analista deve conoscere quelle che sono le forme patologiche del pensiero, senza per questo occuparsene: è un lavoratore della salute, non della malattia.
Per questo motivo andare dall’analista è un privilegio: non ci vanno i matti.
Ed è un privilegio che mi sono permesso di consigliare a questo giovane collega che, secondo il mio parere, potrebbe trarne un notevole giovamento, il che è un complimento di non poco conto.
Iniziare un’analisi è come uscire dal pollaio o, se si vuole, sostenere la civitas.
Stimo e non poco il pensiero di questo amabile collega, anche nel non condividere tutto quel che dice.
Spero di averlo sempre più spesso come partner, cioè come socio in affari, senza por limite al tipo di affari.
Parma, 29 novembre 2017 memoria di San Saturnino di Tolosa Vescovo e martire