I giorni di Roma e il fascismo

I giorni di Roma è il titolo di un volume edito da Laterza dedicato, lo si intuisce dal titolo, ad alcune date fondamentali della storia della Città Eterna. Mi sono fatto condurre dal mio amore dichiarato per Roma e l’ho comprato, tempo fa: ora ne ho completato la lettura.

Devo ammettere che mi aspettavo qualcosa di diverso per cui la lettura non è stata deludente ma nemmeno entusiasmante come mi aspettavo.

L’unione di diversi saggi, legati tra loro da un troppo flebile nesso, è l’aspetto deludente; tuttavia leggendo i saggi singolarmente se ne trovano alcuni di grandissimo interesse.

Il primo fra tutti è quello di Emilio Gentile, professore che ho già avuto modo di apprezzare per altri suoi volumi dedicati al fascismo di pietra, cioè alle innovazioni architettoniche che il fascismo ha apportato a Roma, e al fascismo come forma di religione.

Due tematiche interessantissime.

Secondo il professor Gentile Roma ha attraversato varie fasi nell’elaborazione fascista e mussoliniana, non è stato un amore a prima vista, anzi, la partenza è stata assolutamente conflittuale. Mussolini non poteva che detestare la Roma dei suoi tempi, di stampo liberale, tanto che commentando i disordini attorno al feretro di Enrico Toti (quando, nel 1922, trasportato a Roma fu oggetto di un’aggressione da parte di comunisti ed anarchici che spararono contro il feretro, disordini conclusisi con un morto e 25 feriti) scriveva: «… a Roma, bisogna ricordarlo, c’è il covo infetto della più predace e parassitaria borghesia, quella che, svergognata e insaziabile, succhia tutte le energie della nazione».

Mussolini nel novembre del 1914 si converte all’interventismo, viene espulso dai socialisti, fonda il “Popolo d’Italia” si riconcilia con la nazione, il patriottismo e con Roma; nel 1917 Roma antica diventa così modello per la condotta in guerra: unione di romanità, disciplina, gerarchia e dittatura.

La romanità diventa il modello cui ispirare le idee di impero ed universalità da declinare nell’Italia moderna.

Mussolini: “Roma è il nome che riempie tutta la storia per 20 secoli. Roma dà il segnale della civiltà universale; Roma che traccia strade, segna confini e che dà al mondo le leggi eterne dell’immutabile suo diritto. Ma se questo è stato il compito universale di Roma nell’antichità, ecco che dobbiamo assolvere ancora un altro compito universale. Questo destino non può diventare universale se non si trapianta nel terreno di Roma”.

Roma è un mito che sfida il tempo tanto che ad esso si collega anche l’attualità modernista del mito di Roma: non doveva esservi nostalgia nel guardare a Roma poiché il passato serviva per l’azione politica del presente in vista della creazione futura.

Mussolini concepisce come essenziale a questo scopo la rigenerazione della Roma reale che intende trasformare in una capitale moderna dell’Italia imperiale; Roma in Italia, per il duce, sono nel contempo realtà il simbolo delle celebrazioni del passato, delle polemiche del presente e della visione del futuro; attraverso l’identificazione con la romanità passata il fascismo giustificava la pretesa di rigenerazione dell’Italia futura, di nuovo imperiale.

“Bisogna liberare dalle deturpazioni mediocri tutta la Roma antica, ma accanto all’antica e alla medioevale, bisogna creare la monumentale Roma nel 20º secolo. Roma non può, non deve essere soltanto una città moderna, nel senso ormai banale della parola; deve essere una città degna della sua gloria, e questa gloria deve rinnovare incessantemente per tramandarla, come retaggio dell’era fascista, alle generazioni che verranno”.

Questo comportava l’abbattimento di tutto quello della Roma reale che non piaceva al duce e in particolare le fatiscenti abitazioni edificate caoticamente sui ruderi dei fori imperiali.

I progetti del duce erano faraonici e non prevedevano quei quartieri caratteristici che piacevano invece ai turisti stranieri; già da socialista era mal disposto verso l’industria ricettiva considerata un asservimento servile nei confronti degli stranieri.

Questi quartieri andavano eliminati per lasciare spazio ai monumenti della Roma antica finalmente non più soffocati dalle superfetazioni; Mussolini sostenne gli scavi archeologici, ne promosse di nuovi per far riemergere “i monumenti più augusti dell’antichità, non rifatti perché ogni rifacimento sarebbe una stolta profanazione, ma semplicemente dissepolti o liberati dalle parassitarie incrostazioni accumulate in secoli di abbandono”.

Il piccone divenne l’emblema della frenesia che il duce mostrò nelle opere di distruzione di quanto riteneva pittoresco: ” ma un conto sono i monumenti, un conto sono i ruderi, un conto è il pittoresco o il cosiddetto colore locale. […] Tutto il pittoresco sudicio e affidato la sua maestà il piccone, tutto questo pittoresco destinato a crollare e deve crollare in nome della decenza, della igiene e, se volete, anche della bellezza della capitale”.

Tra il 1923 e il 1926 furono portate avanti le demolizioni nei pressi del tempio della Fortuna Virile e il Tempio rotondo di Vesta, sui mercati e i fori di Traiano, Augusto e Cesare, a sinistra dell’altare della patria, il teatro di Marcello; demolizioni e scavi ci furono fino al 1929 anche nell’area archeologica di piazza di torre Argentina per recuperare templi di epoca repubblicana.

Nacque il primo tratto della via del mare, inaugurata nel 1930, grazie alla demolizione di case e chiese fra l’Ara Coeli, piazza San Marco e le pendici del Campidoglio dove, per far posto alla nuova via, scomparve la vecchia via Tor de’ Specchi.

Questa nuova strada, assieme alla ferrovia, inaugurata nel 1925, che collegava ad Ostia, ed assieme all’autostrada del mare, inaugurata nel ’28, è una testimonianza dello scopo del duce di ricongiungere Roma al mare, risvegliare la passione dei romani per il mare in modo da suscitare un nuovo spirito imperiale.

Nel biennio 1928-1930 fu ripresa la distruzione, già iniziata dai governi liberali, dei quartieri colle del Campidoglio per fare spazio al nuovo monumento a Vittorio Emanuele II; questo comportò l’abbattimento degli edifici anche sulla parte destra dell’altare della patria comprese le abitazioni medievali alle pendici del Campidoglio e della Rupe Tarpea.

Nel 1931 iniziarono, invece, i lavori per una nuova strada, all’inizio denominata via dei monti, che doveva snellire il traffico cittadino, considerato in aumento in una capitale moderna, e insieme unire i colli Albani in direzione dei quali era prevista l’espansione della città.

L’opera, portata avanti freneticamente, per poter essere inaugurata nel 10º anniversario della rivoluzione fascista, comportò la distruzione di tutta l’area tra il foro Traiano e via Cavour, praticamente il quartiere cinquecentesco costruito sui fori di Augusto e Nerva, e la spianata della collina della Velia alle spalle della basilica di Massenzio.

Emergeva qui la preoccupazione di Mussolini per il traffico automobilistico, fenomeno importante in una grande metropoli moderna.

L’opera di costruzione di questa nuova Roma e la distruzione di quella vecchia fu compiuta con criteri assolutamente discutibili, peraltro sostenuti da vari studiosi dell’epoca, proni come sempre accade, al potere dominante, che comportavano anche la distruzione di vestigia romane quando queste ostacolassero la costruzione della Roma fascista oppure il loro interramento come nel caso della via dell’impero.

Se furono innegabili ignoranza e vanità, nella costruzione della Roma fascista, la parte predominante compete, però, alla concezione fascista della nuova romanità in chiave modernistica: Roma, con i suoi monumenti, svolge un compito assegnatole dal duce che consiste sia nella costruzione dell’Urbe mussolinea, sia nella formazione della coscienza nazionale italiana; l’archeologo vi svolge una funzione simbolica, subordinata al fine primario della realizzazione della Roma fascista; l’archeologia era semplicemente il serbatoio di miti da utilizzare per l’azione contemporanea.

Riprendendo le categorie di Nietzsche si può dire che Mussolini fosse indifferente alla “storia antiquaria”, ostile alla “storia critica”, sostenitore della “storia monumentale”: indifferenza alle vestigia della Roma passata quando non funzionale alla costruzione della Roma desiderata, con un metodo simile a quello utilizzato dai famosissimi Barberini, con utilizzo delle rovine antiche per edificare nella contemporaneità.

Stava nascendo una nuova città con i suoi spazi destinati ai riti di massa del nuovo regime, indifferente alle testimonianze della Roma medievale e rinascimentale.

Ne era una testimonianza la via dell’Impero, lunga 900 m e larga 30, inaugurata durante le celebrazioni per il primo decennale della rivoluzione fascista, con sfilata di Mussolini su un cavallo bianco, con la divisa della milizia fascista: in questa via il duce fece collocare, davanti ad ogni foro, la statua dell’imperatore che lo aveva edificato; nel 1934, inoltre, fece affiggere alle mura di sostegno della basilica di Massenzio delle lastre di marmo che raccontavano l’espansione di Roma dalle origini alla massima espansione dell’impero; nel 1936 ne venne aggiunta una per illustrare anche il nuovo impero fascista.

La via dell’impero fu l’opera più spettacolare a livello urbanistico, almeno per il primo decennio dell’era fascista, essa consacrava la vittoria della Roma di Mussolini sulla Roma reale e testimoniava la continuità tra le due romanità, quella antica e quella fascista.

In questi anni il fascismo intendeva conquistare la città anche a livello monumentale, fascistizzandone gli spazi urbani e occupandoli con i propri riti, simboli e monumenti; né a questo sfuggirono le vestigia della Roma antica a loro volta fascistizzate grazie all’inserimento nelle ritualità scenografiche della Roma di Mussolini, chiamate a testimoniare l’archetipo mitico della romanità fascista ed il tempo sacro delle origini al quale si rifaceva la religione politica fascista.

Da tempo Roma non vedeva una tale presenza di architetti e artisti, non tutti ferventi fascisti ma comunque tutti coinvolti dall’idea totalitaria di costruire una nuova civiltà; le loro interpretazioni dell’ideologia fascista sopravvissero e sopravvivono ancora alla caduta del duce perché ancora oggi sono l’impronta di questo passato ci ha lasciato.

Questo alveare di idee, declinate poi secondo la particolare personalità di ogni architetto e fecero del “fascismo di pietra” un esperimento eclettico e sincretista perché fece convivere interpretazioni della romanità fascista anche tra loro contrapposte come la tradizione classicista e l’innovazione razionalista; in ogni caso artisti ed architetti fascisti operavano in un’unica direzione, la ricerca di uno stile adeguato a rappresentare la nuova civiltà vincente, quella fascista.

Mussolini era a favore dell’architettura razionalista e a questo scopo invitò gli artisti a creare uno stile fascista moderno, tuttavia cedette spesso alle influenze dei sostenitori del classicismo che, guidati da Piacentini, seppero adeguare il loro stile in modo da sembrare moderni; in ogni caso il duce non volle stabilire un unico stile di Stato poiché era molto più interessato alla costruzione della Roma nuova per la quale sceglieva di volta in volta quelle opere che soddisfacevano la sua idea di monumentalità.

Nonostante le polemiche tra le varie fazioni in cui si dividevano gli artisti, non mancò la loro collaborazione che deve comunque risultati interessanti come si vede, ad esempio, nella città universitaria, inaugurata nel ’35 e realizzata sotto la direzione di Piacentini.

L’opera però forse più significativa fu il foro Mussolini, nella zona Nord della città, tra il Tevere e Monte Mario, creato per richiamare ed eguagliare la tradizione romana: questo complesso di edifici doveva ospitare le istituzioni che avevano il compito di educare, da ogni punto di vista, i dirigenti dell’opera nazionale balilla e quindi il più grande tentativo di educazione di Stato dell’epoca.

“Fascismo di pietra” è il volume da cui ho tratto queste informazioni ma il saggio che  si trova in “I giorni di Roma” riassume bene questi concetti.

Un altro saggio interessantissimo è quello del professor Andrea Carandini, ma questa è un’altra storia.

Parma, 12 agosto 2017 memoria di Santa Giovanna Francesca de Chantal Religiosa

 

 

 

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