Il professore: per me ha sempre rappresentato un mito, una professione degnissima, una casta da stimare e rispettare, con devozione.
Non ho avuto, nei tanti anni passati a scuola, molti insegnanti stimabili o meglio, alle scuole medie decisamente sì: ricordo con particolare affetto e stima la professoressa di italiano, l’ottima Matilde Gabbi, che sapeva unire cortesia di modi e capacità di trasmettere i contenuti di una materia che ho sempre prediletto.
Ho avuto anche una severissima docente di matematica, Gianfranca Fadda, prematuramente scomparsa, molto severa (diede due sul registro a tutta la classe, in prima media, perchè uno aveva fischiato e nessuno aveva confessato il fatto) ma che adoravo e, credo, mi avesse bene insegnato una materia in cui non ho mai avuto problemi salvo la parentesi del primo anno liceale di cui magari tratterò poi.
Ancora una cortese docente di musica che ricordo con stima e affetto, il comprensivo prof di applicazioni tecniche che mi ebbe in eredità da quella sciagurata riforma che abolì il latino dalle medie e che non sparò sulla croce rossa delle mie inettitudini pratiche, una severissima prof di storia e geografia (che poi strapazzò mio fratello): figure di docenti che facevano studiare seriamente i ragazzi.
Dopo di loro la crisi del liceo: del biennio salvo una supplente, l’avemmo solo un anno, di italiano e latino che era assolutamente isterica (quindi non ne faccio il nome) ma molto competente e seria; del resto non vale la pena ricordare altro; di due ho un ricordo particolarmente negativo: mitigato dalla pietà per i problemi psichiatrici che aveva, quella di inglese mentre ancora pieno di disprezzo per la professoressa di matematica.
Del triennio salvo il prof di italiano (anche se il latino ce l’ha, di fatto, abbandonato) e in parte quello di disegno e storia dell’arte (soprattutto perchè insegnava quest’ultima lasciando perdere il disegno), il resto…
Con tutti, salvo le due eccezioni di prima, ho avuto rapporti ottimi, sebbene di nessuno senta il desiderio di rivederlo. Nella mia carriera scolastica, comunque, mia madre mai e poi mai, anzi maissimo avrebbe osato contestare quanto le dicevano i professori; quando mi rimandarono mi beccai le rimandature e mi misi a studiare di più (e non che studiassi poco, matematica almeno): il professore era una sorta di autorità suprema incontestabile; se le cose fossero andate male la colpa sarebbe stata sempre e comunque solo mia.
Giona Alighieri, protagonista del romanzo “De perfectione” di Francesco Gallina, è professore, così come l’amico Gabriele Trivelloni: l’uno è la creazione letteraria di un giovane ormai ex studente liceale (scientifico come il sottoscritto), l’altro un insegnante vero e proprio.
Mi è venuta l’idea di avvicinarli per via del sogno del 27 ottobre: dall’ospedale dove mi trovavo ricoverato con una gamba di mia madre, con un corpo, dunque, alquanto deturpato (e Giona qui ne sa qualcosa), mi sono ritrovato in compagnia dell’amico Gabriele a percorrere, come un collega forse e forse ancor meglio come discepolo elettivo, il corridoio ampio di una scuola. Gabriele mi libera dalla malformazione accompagnandomi e scomparendo, cioè lasciandomi di fronte ad una donna che sembra farsi carico dell’ultima parte del tragitto dove torno ad essere studente liceale.
Gabriele come Virgilio, mio Virgilio e qui spunta Dante ed il passo verso Alighieri è breve.
Ne traggo una prima morale: la deformità del corpo non viene sanata dalla cura medica (il medico mi dimette) ma da ben altro tipo di lavoro; potrebbero starci altre riflessioni sui sessi ma tralascio al momento.
Giona, a differenza di Virgilio, sembra mantenere nei confronti del mondo, della vita e della sua stessa professione, un atteggiamento di risentito distacco: la cultura ipercompensa ciò che non è riuscito a risolvere: il rapporto con l’altro. Pronto a colpire gli studenti con l’arma contundente del sapere che, però, è inefficace verso chi quel sapere snobba ritenendolo del tutto inutile. Diciamo che Giona paga, pesantemente, la sua difficoltà a chiudere un po’ di conti in sospeso: resta in bilico tra il narcisistico contemplarsi come il colto depositario di una sapienza riservata agli eletti ed il nevrotico preoccuparsi per alcuni degli studenti.
Mi ricorda la poesia che studiai in prima o seconda liceo, “l’albatro” di Baudelarie:
“Sovente, per diletto, i marinai catturano degli albatri, grandi
uccelli marini che seguono, indolenti compagni di viaggio, il
bastimento scivolante sopra gli abissi amari.
Appena li hanno deposti sulle tavole, questi re dell’azzurro, goffi
e vergognosi, miseramente trascinano ai loro fianchi le grandi,
candide ali, quasi fossero remi.
Come è intrigato e incapace, questo viaggiatore alato! Lui, poco
addietro così bello, com’è brutto e ridicolo! Qualcuno irrita il
suo becco con una pipa mentre un altro, zoppicando, mima
l’infermo che prima volava!
E il poeta, che è avvezzo alle tempeste e ride dell’arciere, assomiglia
in tutto al principe delle nubi: esiliato in terra, fra gli
scherni, non può per le sue ali di gigante avanzare di un passo.”
Credo mi sarei trovato bene con Giona, che avrebbe apprezzato il mio impegno; come professore avrei tratto ispirazione da lui (i miei conti in sospeso…).
Gabriele credo sia severo o meglio serio: mi parla spesso bene dei ragazzi (e molto bene del “padre” di Giona) che tratta da adulti e non da bambocci, avendone spesso soddisfazioni.
Gabriele mi sembra sia la via di guarigione anche per Giona: nell’ordinamento paterno Gabriele lo definirei un buon padre sia per me (non conta la vicinanza anagrafica, si può essere padri anche se più giovani del figlio) che per Giona; lo avvicinerei alla figura del padre della parabola del figliol prodigo.
Giona è un profeta interessante perchè non vuole fare il profeta e disobbedisce clamorosamente al Signore, andandosene per i fatti suoi a Tarsis e non a Ninive come gli era stato indicato.
Trascorsi tre giorni nel ventre del pesce decide di dar retta, finalmente, al Signore e si reca a Ninive ove predica, ascoltato, la conversione dei cuori (ovvero del pensiero).
Ma il suo senso morale pretenderebbe una sonora punizione, ha un’idea della correzione di tipo penalistico: c’è una pena da scontare mentre è esattamente il contrario; nel peccato si paga una pena, anzi il peccato è pena (inibizione, sintomo, angoscia, fissazione).
Ancora la parabola del figliuol prodigo ci conforta: il ragazzo (ma potrebbe essere un adulto, l’età conta poco) “smarrito” paga la pena dell’aver perso “la diritta via”: il padre che lo accoglie non lo mette prima in quarantena per fargliela pagare, indice subito una grande festa.
Giona è come il fratello maggiore della parabola: la città si salva dalla punizione e Giona se ne adombra, preferisce il Signore coerente e vendicativo, ha un suo progetto sul pensiero del Signore che non contempla possibili ripensamenti: fiat iustitia et pereat mundus!
Il Signore, a differenza di Giona, si dimostra malleabile, sia con gli abitanti di Ninive sia verso lo stesso malinconico e recalcitrante profeta: non ha indefettibili progetti di vendetta e punizione.
Giona Alighieri è un nome, insomma, che ha alle spalle una storia secolare, una storia di riflessioni e soluzioni che attualizza nel qui ed ora della sua esistenza.
Alighieri (Dante), abbeverandosi alla cultura islamica, unita al pensiero comune allora in voga, cioè la cultura (il cristianesimo), se ne esce con una soluzione perversa: la stuporosa contemplazione che sostituisce il rapporto con il Signore ed il Suo Figlio Gesù Cristo; Giona (il profeta) si ferma alla nevrosi del considerare il Signore un padre padrone.
Giona Alighieri (il professore) quale soluzione trova? Di certo ha il merito di riproporre un tema, quello che l’amico Gabriele usa chiamare il bivio della metafisica: essere (i greci e Dante) o rapporto (l’Antico Testamento quindi Giona).
Bivio personale, individuale e di civiltà.
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