Per quest’anno la fiera di Sorbolo è andata; molto meglio di quanto osassi sperare anche se il mio lavoro è stato ben altro rispetto a quello che normalmente uno si aspetterebbe dal ruolo che ricopro.
Tutto è filato liscio e questo è l’importante.
Splendidi i colleghi che hanno collaborato a vario titolo e superate le varie difficoltà, tra le quali due incidenti stradali praticamente sotto il naso (uno dei due).
Due eventi mi hanno colpito particolarmente, la lotta tra i sindaci per l’ultima sedia e la sessione (si dice così?) di boxe.
Parto dall’ultimo, il pugilato: mi è capitato di assistere, in tv, ad incontri di pugilato, non frequentemente perché non li trovo così interessanti, tuttavia vi ho assistito “protetto” dallo schermo e dalla distanza.
Dal vivo mi è parsa tutt’altra cosa.
Prima ho presidiato lo spogliatoio dove mi veniva in mente, con una certa insistenza, la parola Männerbund, che ho iniziato a conoscere grazie ai libri di George L. Mosse; non credo che la boxe sia assimilabile ad un Männerbund ma questo mi suggeriva l’associazione di idee. Erano previste anche le donne pugile (pugilesse credo vorrebbe il politically correct o pugilatrici?) che, fortunatamente, mi sono state risparmiate: la mia mente di retrogrado maschio latino si rifiuta all’idea che le donne si diano a tale brutalità.
Ma vengo agli incontri: ne ho visto alcuni spezzoni, per la curiosità di vedere dal vivo; l’impressione è stata spaventevole.
Il rumore dei colpi, i visi sanguinanti e poi tumefatti, la durezza degli scontri mi hanno lasciato un senso di profonda tristezza.
Già mi è abbastanza inconcepibile di poter colpire uno, anche se in preda all’ira (peraltro mi vanto di non averlo mai fatto in vita mia e anche quando ho dovuto, per lavoro, agire coattivamente, ho sempre avuto attenzione scrupolosa nel limitare al massimo la costrizione), ma l’idea di poter fare a botte con qualcuno per sport mi sembra un’idea del tutto insensata.
Non saprei motivare l’associazione ma mentre scrivo mi torna l’idea che mi ha accompagnato nella visita di Auschwitz e Sachsenhausen, l’odio spersonalizzato, sublimato, anzi distillato.
Lo sport sarà anche educativo (sebbene gli innumerevoli scandali ci dovrebbero avere insegnato che nulla è immune dal peccato originale) ma secondo i criteri di un’educazione guerresca: è una guerra trasformata in politicamente corretto ante litteram; un tempo i gladiatori versavano il sangue degli avversari, oggi (ma non da oggi) resta l’idea di un avversario da battere, da sconfiggere, anche se con mezzi meno cruenti e con sistemi teoricamente più leali.
Non mi sembra casuale che i regimi totalitari novecenteschi abbiano tanto enfatizzato il ruolo dello sport (né la chiesa cattolica ha avuto la testa di sottrarsi alla “banale” formazione sportiva dei suoi ragazzi, dal dopoguerra in avanti).
Resta che il pugilato, in particolare, non fa per me.
Seconda scena: il gioco delle sedie, un gioco che wikipedia, definisce un classico gioco da bambini ma che trovo particolarmente in sintonia, in questo caso, con lo spettacolo che l’ha preceduto.
In modo scherzoso i sindaci coinvolti hanno praticato l’arte della boxe con altri mezzi.
Ancora una suggestione mi si presentava, anche in forma visiva: un quadro nel complesso di Charlottenburg, a Berlino, recentemente visitato.
Protagonista della tela è, da me non amato, Napoleone, vestito da imperatore.
Questo ritratto trasuda “potere” da tutti i pori, anzi da ogni pennellata: Napoleone ammanta, coi panni dello sfarzo, ma anche del decoro, la sovranità che gli appartiene e che esercita in quanto imperatore dei francesi; tutto, ogni dettaglio, trasmette l’idea dello sfarzo, della ricchezza e della dignità che caratterizza i sovrani.
Non mi immaginavo Napoleone intento al gioco della sedia; nemmeno la regina Elisabetta, che di potere ne ha assai meno di quanto ne avesse il detestato Napo.
Il gioco delle sedie mi sembra, in realtà, non un gioco per bambini, anzi.
L’idea di soffiare ad altri il posto mi sembra molto più dell’adulto che del bambino che non ha nessun bisogno di lasciare gli altri senza posto, anzi apprezza che i posti vengano occupati: vince chi resta seduto da solo, avendo eliminato gli altri, secondo un principio di sottrazione che oserei definire sadico e avaro.
Troppo evidente il parallelo con l’idea di scarsità e di torta da dividere, tutti pensieri guerreschi.
Parma, 9 ottobre 2015