Come le ciliegie, le opere di George L.Mosse: una tira l’altra; eccomi stavolta a riassumere il primo capitolo, le origini, de Il razzismo in Europa, altra opera di sicuro interesse e fonte di notevole ispirazione.
Quello che a me interessa è ritrovare nell’oggi le stesse dinamiche già presenti da un secolo o più (in tanto sbraitare contemporaneo ci sono idee, proposte, pensieri antichi di secoli) per confrontarli con il pensiero di Freud ed il pensiero di natura.
Il razzismo ebbe la sua culla nell’Europa del XVIII secolo, il secolo dell’Illuminismo che vide all’opera gli intellettuali nel lavoro di sostituzione dei vecchi culti fideistici, identificati prioritariamente col cristianesimo, con la ragione e le virtù naturali presuntamente innate nell’uomo, cercando ispirazione e sostegno nei classici greci e romani.
Lo stesso secolo vide anche un risveglio del fervore religioso perché la religione era ancora ben salda nei cuori della popolazione; fiorirono, in particolare, per tutto il secolo ed in parallelo coll’Illuminismo, il pietismo nell’Europa continentale e l’evangelismo in Inghilterra; essi propugnavano un cristianesimo connotato da un impegno di tipo emotivo e da una “religione del cuore” vissuta in una comunità legata da vincoli di fratellanza.
Illuminismo e cristianesimo interiore furono in lotta per tutto il secolo eppure entrambi furono alimento del razzismo cui fornirono cospicui contributi.
L’Illuminismo fu caratterizzato anche da un lavoro di definizione del posto dell’uomo nella natura: la natura e i classici costituirono i criteri ermeneutici per collocare l’uomo nel nuovo universo divino e fornirono anche nuovi criteri di virtù e di bellezza; scienza naturale, moralità ed estetica andarono di pari passo e si influenzarono reciprocamente.
La scienza si impegnò molto nella classificazione delle razze umane utilizzando come criteri il posto occupato in natura e le influenze dell’ambiente; a metà del secolo nacque l’antropologia che aveva il fine di collocare esattamente l’uomo nella natura grazie a osservazione, misurazioni e confronti tra gruppi umani e gruppi animali.
Questa ricerca di un unico criterio, segno dell’armonia umana ed universale, indusse a credere nell’unità di corpo e mente, unità che si sarebbe sostanziata in maniera fisicamente rilevabile e misurabile: frenologia (lettura del cranio) e fisiognomia (lettura del viso) furono.
A queste osservazioni e misurazioni scientifiche si associavano giudizi di valore estetico, mutuati dai canoni dell’antica Grecia ed in questo modo si unirono passione scientifica e fiducia nell’autorità dei classici col risultato che i giudizi sull’uomo erano emessi in base alla sua maggiore o minore corrispondenza alla bellezza ed alle relative proporzioni elaborate dai classici.
L’estetica si sarebbe manifestata nella razionalità e sarebbe stata lo specchio dell’equilibrio interiore: la classificazione scientifica fu basata sugli ideali soggettivi elaborati dell’Illuminismo.
Il continuo rimando tra estetica e scienza fu una delle caratteristiche fondamentali del razzismo nascente; mentre sfruttava questa eredità illuminista, il razzismo si alimentava anche alla fonte religiosa.
Pietismo ed evangelismo predicavano un’intensa esperienza di vita, attraverso la dedizione a Cristo e all’amore verso il prossimo in un rinnovato senso della comunità: la sottolineatura dell’istintività, dell’interiorità avrebbe portato a teorie razziste fondate sull’anima e sostenute tutte da un ideale di coerenza e coesione della comunità come reazione e rifugio da un mondo in “pauroso” cambiamento.
In effetti il razzismo seppe ben sfruttare la speranza in un mondo felice, ordinato e sano, così come seppe integrare tra loro l’aspetto esteriore dell’uomo col suo posto nella natura ed il corretto procedere spirituale in modo da ottenere, unendoli allo spirito religioso, l’idea dell'”anima razziale”.
All’inizio, però, fu soprattutto la componente illuministica, quella cioè della concezione di Dio e dell’unità della natura umana a incidere sulla nascita del razzismo.
Vediamo di seguito, alcuni aspetti dell’Illuminismo che hanno contribuito a questo processo.
L’Illuminismo combatté il cristianesimo ma non poté rinunciare ad un principio ordinatore che individuò in un Dio che tramite un grande disegno ordinava uomo, moralità e universo, una deità rintracciabile solo nell’ordine della natura e nel comportamento dell’uomo e tale da garantire la razionalità e la salute del mondo, restando lontana dall’agitazione e dal caos del quotidiano.
L’illuminismo, dunque, vide l’uomo come parte integrante della natura e anello della ininterrotta “”catena dell’essere””, in un universo senza salti e gerarchicamente ordinato e questo spiega la fissazione di molti scienziati nella ricerca dell’anello mancante che unisse l’uomo agli animali.
Durante il XVIII secolo, per l’appunto, l’animale gerarchicamente più alto, come era ritenuta la scimmia, era collegato con il tipo umano ritenuto più basso, quale era generalmente ritenuto il nero.
La “catena dell’essere”, venuti meno gli angeli e il Dio cristiano, aveva origine e conclusione sulla terra ed il nuovo Dio agiva immanentisticamente all’interno di ogni anello: la divina provvidenza veniva comunque salvata e trasformata in una forza panteista, che garantiva ordine e armonia.
Questo criterio/bisogno di unità incise anche sulla concezione dell’uomo di cui si concepì l’unità di corpo e mente; se questo comportava comunque il rischio dell’esaltazione della carne e dei piaceri mondani, tuttavia va sottolineata l’idea che l’uomo interiore potesse essere letto attraverso il suo aspetto esteriore, idea che poteva spalancare le porte al razzismo grazie allo scivolamento dalla scienza all’estetica.
Le elaborazioni materialiste all’interno dell’illuminismo portarono a considerare l’uomo come un meccanismo all’interno di un universo spersonalizzato; anche se questo non era l’intento dei filosofi che, anzi, auspicavano un maggiore dialogo tra gli uomini, ne sortì un mondo in cui l’uomo era lasciato a se stesso in un sistema preordinato di leggi razionali: il deismo sembrò ridurre l’universo a una calcolabile formula matematica.
Nel frattempo la rivoluzione francese aveva destabilizzato la struttura politica europea, nel momento stesso in cui la tradizione veniva messa in crisi dai rapidi mutamenti sociali dell’epoca; il tempo stesso sembrava scorre più velocemente grazie al miglioramento delle comunicazioni e ad un ritmo di vita più veloce.
Anche la politica assunse carattere di astrattezza quando in varie parti d’Europa il governo non fu più impersonato da un sovrano e le cui fondamenta furono cercate nei concetti di nazione o di popolo, oppure, come nella Francia del Terrore, nelle astratte “Dea ragione” e “essere supremo”.
L’ansia e la solitudine provate di fronte a questo mondo impersonale portarono ad ancorarsi alle vecchie tradizioni, ad una fede personale e ad un universo che parlava attraverso miti e simboli.
La natura stessa poté fungere da simbolo delle storie sacre di cui era testimone: il mondo riprendeva vita e si rendeva percepibile attraverso rituali o oggetti familiari: i miti e simboli che davano concretezza alle idee astratte di Dio nell’uomo avevano origine dal mondo del rituale e delle emozioni, caratteristico del pietismo e dell’evangelismo.
Anche questi ultimi puntavano all’unità dell’uomo e dell’universo ma non facendo leva sulla ragione, piuttosto sottolineando l’importanza delle emozioni, emozioni suscitate dalla pietà cristiana ed espresse concretamente nel canto comune, nella preghiera e nella vita di comunità che avevano una eguale sensibilità.
Un siffatto cristianesimo era particolarmente favorito nelle varie regioni tedesche dove l’illuminismo era considerato sinonimo di dominazione francese.
Partendo dall’idea di comunità e dalla tensione all’unità il pietismo iniziò a interessarsi anche della patria; i pietisti, coi loro atteggiamenti profondamente emotivi, avevano bisogno di simboli esteriori in cui gli spiriti potessero trovare pace; fu attraverso questo modo di pensare che la patria interiore di Cristo fu proiettata all’esterno, nella comunità nazionale, quindi patria non più solo interiore ma esteriorizzata in miti e simboli come la bandiera, la sacra fiamma e l’inno nazionale che comparvero in quasi tutta Europa, verso la fine del XVIII secolo, per rappresentare le nuove nazioni.
Oltre ai simboli ci fu l’impulso a dare una personalità al mondo, visto con occhi romantici e quindi ben diverso dall’arido meccanismo dell’illuminismo: nacque l’idea che la natura simboleggiasse i sentimenti, piante ed animali furono utilizzati per rappresentare miti e leggende; fu questo mondo “fantastico” che fornì uno dei substrati in cui si sarebbe sviluppato il pensiero razzista.
Concreto ed astratto trovarono corrispondenza nel rapporto tra mondo interiore e mondo esteriore, ovvero tra anima e il mondo; illuminismo e pietismo qui si intrecciarono: i risultati delle nuove scienze e gli ideali della bellezza classica, entrambi ritenuti simboli di un animo rettamente operante, furono accettati entrambi anche se non basati sulla razionalità ma sul mondo emotivo del cristianesimo e del patriottismo.
Questo mondo simbolico e mitologico fu collegato con la natura e con la storia e si pensò che entrambe contenessero forze permanenti ed immodificabili: la natura fu considerata opera di Dio, che la governava dal vertice della “catena dell’essere” pur essendo presente in ogni sua manifestazione, essa garantiva con la regolarità delle stagioni un proprio ordine divino, ma romanticamente, fu anche considerata simbolo di saldezza e vitalità, con il compito di disciplinare le passioni umane.
Poiché la natura simboleggiava i più genuini sentimenti umani essa divenne una forza genuina, i cui ritmi servivano per unificare tutto ciò che viveva in essa: questa idea, che connotò quasi tutta la letteratura romantica e pietistica, comportò anche una esaltazione della vita del contadino ed una diffidenza verso la vita della città.
Anche la storia fu considerata parte di un disegno divino e quindi indipendente dalla volontà umana, essa divenne una forza organica, l’oggettivazione del destino attraverso il tempo.
Fu però la natura, nel XVIII secolo, la forza ritenuta significativa sia dagli illuministi che dal risveglio religioso: genuinità fu un sinonimo di vicinanza con la natura, in opposizione alla modernità caotica allontanatasi dall’ordinato disegno divino del mondo.
Sull’idea di primitivo come genuino ancora una volta pietismo ed illuminismo si trovarono concordi: per i filosofi della prima metà del Settecento il primitivo era puro perché non ancora contaminato da cristianesimo e superstizione, per i pietisti primitivo significava conforme alla natura.
Ne furono esempi letterari l’Emilio di Rousseau e il Robinson Crusoe di Defoe: il primitivismo si legava all’idea di innocenza per cui l’uomo era “virtuoso, sensibile e morale”; il “nobile selvaggio” dei racconti di viaggio era anche una critica alla contemporaneità perché si pensava che egli vivesse in una comunità di uguali in cui tutti avevano il nutrimento necessario.
Le notizie sui popoli primitivi erano in gran parte ricavate dai libri di viaggio e dalle escursioni in terre sconosciute, molto di moda durante il XVII secolo, quando questa letteratura fu considerata una continuazione della storia biblica ed il mondo extraeuropeo rientrò nel generale dramma della salvezza: gli indigeni erano considerati simboli viventi del racconto della creazione della Genesi oppure identificati con le tribù perdute d’Israele; nel XVIII secolo, tuttavia, queste analogie sacre persero di rilievo a causa dell’incontro con i primitivi molto più immediato e traumatizzante, tanto che l’iniziale idealizzazione del primitivo lasciò il posto ad una accentuata ostilità.
I racconti di viaggio continuarono a fornire materiale
per la classificazione degli antropologi ma ben presto l’idea della superiorità intellettuale europea prese il sopravvento e considerò la presunta innocenza come atavismo, un non essere ancora giunti alla civiltà: il primitivo andò a occupare lo stadio più basso della “catena dell’essere” in contrapposizione allo sviluppo ottenuto dalle creature superiori.
Il primitivismo, nel XVIII secolo, fu associato agli abitanti di quei paesi con i quali l’Europa stava entrando in contatto; essi vennero presto bollati come barbari e, a metà di quello stesso secolo, la mentalità primitiva fu considerata il contrario della ragione; al contrario i contadini, i pastori e chi viveva a contatto della natura, in patria, ovviamente in Europa, era visto come esempio di superiorità e di schiettezza.
John Locke pensava che l’intelletto primitivo fosse capace di afferrare solo nozioni semplici e concrete; questa idea ebbe successo e da allora si iniziò a considerare lo sviluppo dell’intelligenza come passaggio da uno stadio inferiore ad uno superiore, dal concreto all’astratto e questo ebbe grande influenza perché gli intelletti primitivi furono considerati fermi in una fase iniziale: gli indigeni passano da “nobili selvaggi” a bambini da educare e governare.
Nel XVIII secolo si diffuse l’immagine del nero incapace, pigro, indisciplinato: questa idea avrebbe trasformato poi il nero in un anarchico o nel sanculotto della rivoluzione francese.
Questa idea del primitivismo entrò però in rotta di collisione con l’ideale illuministico di ordine e moderazione: i filosofi erano andati alla ricerca di autorità, trovandole nelle leggi della natura e nei classici, realtà che simboleggiavano legge ed ordine, repressione delle passioni e moderazione; giardini e parchi settecenteschi, costringendo la natura ad uniformarsi ad ordine e legge, facevano quel che la scultura greca faceva con l’uomo, rappresentato secondo i criteri di armonia e proporzione, secondo le teorie, che ebbero enorme successo, di J.J. WInckelmann.
Laocoonte strangolato dai serpenti era la perfetta rappresentazione di questa idea: drammaticità della situazione manifestata in un volto sereno: bellezza è sinonimo di ordine e serenità, riflesso di un mondo immutabile di salute e felicità sottostante al caos dei tempi.
La bellezza archetipica greca era presa come modello di riferimento perché rimandava ad un mondo puro e metteva così in contatto l’uomo con Dio e la natura; la bellezza seppe unire il razionalismo e l’emotività e questo spiega perché anche gli scienziati dell’epoca utilizzarono spesso criteri estetici per la classificazione dell’uomo e non criteri scientifici: bellezza e bruttezza furono criteri di classificazione umana così come quelli, molto più concreti, delle misurazioni, del clima o dell’ambiente.
Queste caratteristiche, all’inizio, non furono però considerate legate all’anima razziale, ma dipendenti dal clima in cui le tribù vivevano.
Gli ideali tipo comprendevano oltre criteri estetici anche modi di comportamento sui quali spiccava la moderazione, valore sia per gli illuministi che per i movimenti religiosi.
Queste preoccupazioni morali erano sicuramente frutto del movimento evangelico e pietista ma anche dello choc che l’Europa aveva vissuto con la rivoluzione francese vista da molti come una punizione per la vita dissoluta della nobiltà: la moderazione era sicuramente un valore che l’illuminista associava a bellezza e ordine.
In realtà già nelle epoche precedenti i non europei erano stati considerati brutti e il nero a volte considerato un uomo bestia, ma mai prima di allora era stato fissato un unico ideale cui avrebbe dovuto conformarsi la razza superiore; dal XVIII secolo e per un secolo e mezzo l’ideale fu coincidente con la bellezza classica e la morale rispettabile e questo fu il criterio per giudicare gli uomini.
Le basi del razzismo ebbero due ulteriori rinforzi: il più frequente contatto fra bianchi e neri e la diffusione in Europa degli ebrei come minoranza recentemente anticipata (che fino al XVI secolo aveva vissuto radunata ed isolata nei ghetti); verso l’inizio del XIX secolo, grazie a Illuminismo e rivoluzione francese, vennero meno numerosi ghetti e gli ebrei entrarono nella vita europea proprio nello stesso periodo in cui anche i contatti con i neri che stavano facendo più frequenti.
Quello che incise fu proprio la maggiore frequenza di contatti perché fino a quel momento i pochi stranieri erano visti con benevola curiosità; questo fece sì che, ad esempio, ai cinesi fosse riconosciuto il carattere del saggio, essi erano rari in Europa per cui godettero di grande rispetto, favoriti anche dalla moda che verso la metà del secolo ricercava tutto quello che aveva a che fare con la Cina, dai giardini alle porcellane: il cinese sembrava completare il mondo illusorio del barocco e del rococò.
Per un po’ anche il “nobile selvaggio” aveva svolto questa funzione ma la maggiore frequenza di rapporti lo aveva ben presto marginalizzato nel disprezzo e nella paura della sua onnipresenza; alla fine, comunque, nemmeno i cinesi sfuggirono a questa visione razzista.
Fu il conte Joseph-Arthur de Gobineau, uno dei più famosi teorici della razza di metà Ottocento a sostenere le opinioni ostili verso la razza gialla.
I pregiudizi contro i neri e gli ebrei non potevano, comunque, prescindere dalla loro presenza perché la gente aveva bisogno di vedere con i propri occhi lo straniero tanto differente da lei.
Per quanto riguarda i neri la loro presenza aumentò, a Londra, nel XVIII secolo e l’atteggiamento nei loro confronti era di timore per i matrimoni misti e le violenze, le idee su di loro erano quelle che venivano dai territori dell’impero quindi i neri erano considerati oggetti da educare e disciplinare, cui insegnare una moralità adeguata e presso i quali diffondere il Vangelo del lavoro; era diffuso anche, grazie al cristianesimo, un certo sentimento di pietà nei loro riguardi poiché il razzismo verso di loro non si era ancora consolidato, tuttavia nelle classificazioni degli uomini fatte dagli antropologi i neri occupavano sempre un posto inferiore. Nel XVIII secolo gli antropologi ignorarono, invece, gli ebrei o addirittura li considerarono appartenenti alla razza caucasica e perciò assimilabili alla vita europea; a loro favore erano state applicate le idee di cosmopolitismo, eguaglianza e tolleranza, perché in fondo, essi erano dei bianchi; fu solo la seconda metà dell’Ottocento che vide l’inizio, con una certa sistematicità, dei principi razzisti applicati anche agli ebrei.
Queste incertezze non riguardavano mai i neri che erano sempre considerati inferiori nella “catena dell’essere”, non più considerati nobili selvaggi, ma anzi sempre più frequentemente, legati al regno animale; ci fu chi sostenne che non fosse una coincidenza la compresenza, fianco a fianco, in Africa del nero e del gorilla. Gli antropologi accolsero con favore l’idea proposta dai viaggiatori che vi fosse uno stretto rapporto tra neri e scimmie, questo specialmente dopo che gli scienziati cominciarono a utilizzare criteri estetici; Peter Camper, nel 1792, confrontava i crani delle scimmie con quelli dei negri ed altri si posero il problema se questi ultimi fossero l’anello mancante tra l’uomo e l’animale.
L’antropologo Edward Tyson, nel 1699, aveva pensato che questo anello fosse costituito dai pigmei che considerava più simili agli animali che agli uomini; egli si rifaceva, nei suoi ragionamenti, alla mitologia classica e al concetto dell’uomo bestia; in effetti non era mai scomparsa l’idea che le scimmie fossero un genere non totalmente differente dall’uomo, anzi una specie di uomo inferiore che si rifiutava di parlare per non cadere schiavitù.
Tyson considerava i pigmei delle scimmie perché di statura piccola e con i nasi schiacciati, utilizzando quindi criteri estetici di giudizio; ma non era il solo, la maggioranza degli antropologi riteneva che la statura piccola coincidesse con l’inferiorità razziale, come scriveva ad esempio, Christoph Meiners: “l’alta statura è una caratteristica della nobiltà caucasica”; anche la forma del naso aveva la sua importanza, quello schiacciato del nero certificava la sua vicinanza al regno animale, mentre quello adunco degli ebrei la loro mancanza di grazia interiore.
Molti antropologi del Settecento si applicarono alla ricostruzione della “catena dell’essere” col risultato che vennero utilizzati criteri molto diversi, dall’ordine naturale alla mitologia antica, dai racconti dei viaggiatori ai pregiudizi estetici.
Contemporaneamente il cosmopolitismo illuminista e la sua inclinazione verso teorie che ritenevano il comportamento umano influenzato dall’ambiente, tendevano a neutralizzare i pregiudizi idealistici e romantici: essendo parte della natura da questa dipendono le differenze tra i gruppi umani ed anzi, essendo natura, uomo e il mondo intero immagine di Dio, il nero non poteva essere considerato inferiore.
Per un certo tempo, quindi, scienza ed estetica procedettero affiancate, ma il mondo dei tipi ideali, dei miti e simboli ricevette forza da concetti opposti all’illuminismo, cioè dal pietismo, dall’evangelismo e dal preromanticismo, quindi arrivò a saldarsi con l’illuminismo, grazie agli antropologi che, con le loro classificazioni, passarono dalla scienza all’arte.