Sono stato ospite a cena da Silvia e Gabriele, domenica sera; assente ingiustificata Daniela che avrebbe arricchito ulteriormente le belle ore trascorse.
Ho avuto occasione di assistere a “L’uomo dal fiore in bocca” di Luigi Pirandello, interpretato da Vittorio Gassman.
Bello anche se Pirandello non è uno dei miei autori preferiti; apprezzato a scuola, ai tempi della maturità, poi abbandonato.
Proprio pensando alla scuola, all’ultimo anno di liceo, mi tornavano in mente alcuni degli autori che ho studiato (ed amato), che mi sembrano uniti tutti da un filo comune.
Inizio con l’immancabile Leopardi di cui si studiano le varie poesie, tutte melancoincamente orientate ad una visione pessimista quando non tragica (“e per virili imprese, per dotta lira o canto, virtù non luce in disadormo ammanto”, ci fece studiare a memoria il prof).
Foscolo va dal suicida Ortis ai sonetti ( a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura) a i Sepolcri; Manzoni, sembra salvarsi coi Promessi Sposi ma non manca la povera Ermengarda (te collocò la provvida sventura infra gli oppressi: muori compianta e placida, scendi a dormir con essi; alle incolpate ceneri, nessuno insulterà) o il pessimismo del coro dal Conte di Carmagnola (Tornate alle vostre superbe ruine,/ All’opere imbelli dell’arse officine,/ Ai solchi bagnati di servo sudor./ Il forte si mesce col vinto nemico,/ Col novo signore rimane l’antico; / L’un popolo e l’altro sul collo vi sta. / Dividono i servi, dividon gli armenti;/ Si posano insieme sui campi cruenti / D’un volgo disperso che nome non ha.).
Pascoli con la cavallina storna e l’atomo opaco del male, Carducci con funere mersit acerbo e pianto antico, poi Gozzano (Socchiusi gli occhi, sto/ supino nel trifoglio,/ e vedo un quadrifoglio/ che non raccoglierò.)
Verga, Montale, Quasimodo, Pirandello, altri ne dimentico sicuramente, tutto l’Ottocento ed il Novecento sembrano essere dedicati alla politica risorgimentale ed alla malinconia.
La dimensione della tragedia, personale o comunitaria, è sempre presente: l’uomo si scioglie letteralmente come neve al sole, incapace di sostenere una realtà che lo schiaccia. Tutto è crisi.
Di questo mi sono abbeverato, amando i versi, le rime, le parole scelte, il vacuo gioco di suoni quasi musicali di Ermione nella pineta durante la pioggia, di D’Annunzio o le tragedie così fatali e definitive, laceranti eppure ricomprese, quasi forzate nelle catene stilistiche della metrica.
Non vi è nulla di spontaneo nella poesia; anche l’espressione della più blanda emozione è frutto di un lungo lavoro di meditazione, preparazione, limatura. Questo me l’ha fatta apprezzare: le parole hanno avuto la funzione di Caronte, accompagnando l’anima sofferente oltre lo Stige dell’emozione, in un luogo ove la forma poetica trasforma in cammei eterni i sentimenti, rendendoli condivisibili e nello stesso tempo irraggiungibili. Un’operazione di sublimazione, un lenitivo dell’angoscia, non una soluzione.