Oggi giornata di partenze per gli amici: chi in Grecia, chi negli U.S.A., un po’ li invidio, ma anch’io mi sono concesso una partenza, in treno, per una meta meno impegnativa ma piacevole.
Il viaggio in treno mi permette di leggere il giornale e di pensare con calma ai fatti miei, così ne ho approfittato per riflettere su una parola che da alcuni giorni, saltuariamente, fa capolino in testa: burdigalla.
Ho scoperto che Burdigala, con una enne in meno, è il nome latino della città di Bordeaux di cui ignoro praticamente tutto, salvo che è famosa per il vino, quindi non è un nome con cui abbia consuetudine o motivi di conoscenza. La seconda parte della parola, tuttavia, mi ha evocato ricordi infantili: il primo giorno di scuola con mia madre che piangeva, lasciandomi all’ingresso e soprattutto la galla, che è il modo che mia madre utilizza per denominare il fiocco che, ai miei tempi, si usava portare col colletto bianco ed il grembiule nero, alle scuole elementari.
Ho viaggiato un po’, insomma, anche con la memoria, ricordando una serie di episodi “spiacevoli” che hanno costellato la mia giovinezza; uno di questi risale ai tempi della mia passione per Renato Zero (decisamente eccessiva, lo ammetto e che oggi mi stupisce e non poco).
Correva l’anno… e io avevo il motorino; in un’occasione non ricordo quale, prima di andare a fare rifornimento, trasferii sui jeans, con la penna blu, un’immagine del volto del cantante. Inutile citare la reazione di mia madre, fin troppo ovvia, ma ricordo che andai a fare il pieno al motorino ed il benzinaio (un tipo austero che non era il ritratto della simpatia) mi disse qualcosa a proposito del ritratto; non ricordo cosa ma, tornato a casa, i jeans finirono nel cesto della roba da lavare.
Da quel momento credo di non avere mai trasceso la banale normalità nel vestire fino a quando, a Roma, comprai quella bellissima sciarpa che ancora utilizzo, di rado per non distruggerla, e che tanto fece discutere quando la sfoggiai a Rimini per la prima volta (l’assessore mi apostrofò con un: “ma vieni a lavorare con una cosa sciarpa così?”). Tra i due episodi sono passati direi 25 anni circa, ma del primo rammento ancora il senso di disagio e vergogna che provai.
Ripensando a burdigalla, mi veniva da notare che è una parola, brutta, eccessiva, infantile, epperò una parola creata da me senza saperne il perchè.
L’ho accostata a “towanda” del film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”: non sarà il mio grido di battaglia ma potrebbe essere una buona risposta ad una serie di critiche che ho ricevuto negli anni.
Ho imparato da Giacomo Contri che lo psicoanalista è un guastatragedie: burdigalla potrebbe essere la giusta risposta alle pseudo tragedie che ho permesso mi funestassero l’esistenza, come mi ha fatto notare una persona, ridendo (sono anni che lo conosco e non l’ho mai sentito o visto ridere).
Mi tengo, nel frattempo, cara l’idea di partenza e di ri-partenza; almeno nel pensiero sono sempre pronto a partire, il che lo considero positivo.
Parma, 23 luglio 2014