angoscia e discorso dell’uniforme

Piazza Ghiaia, stamattina alle 8.30: ci sono arrivato dai portici della Pilotta, accompagnando mia madre che voleva fare shopping al mercato: quell’angolo sembrava un pezzo di terreno accanto a un formicaio; decine di persone si affaccendavano smaniose attorno ad alcuni banchi che esponevano capi d’abbigliamento a 2,3,5 euro.

Mi tornava in mente la vecchia Ghiaia, coi banchi della frutta e verdura uno accanto all’altro ed all’interno le fontanelle in cui si andava a bere; ricordo anche i due negozi di polleria vicini alle scale che conducono al lungo Parma, esponevano delle schiere di (ottimi) polli arrosto che erano uno spettacolo per la vista ed una tentazione per il palato.

Mi stupisco un po’ di questo ti po di apprezzamento perché per la mia timidezza e senso dell’ordine quella piazza era molto caotica e “popolana”.

Ieri, facendo un sopralluogo dove deve tenersi la fiera di Colorno, ho ricevuto i complimenti del sindaco perché indossavo, come ogni giorno, giacca e cravatta: da quando sono stato assunto a Modena ho questo vezzo cui non sono obbligato se non dal mio alto senso (estetico?) delle istituzioni.

Sono quasi cinque anni che non derogo da questo vincolo autoimposto, pur avendo ricevuto varie sollecitazioni da più parti (non solo da colleghi) ; nemmeno lo specchio delle virtù professionali (e non) che il mio modello, l’amatissimo Commissario Superpiù Andrea Piselli, cui faccio riferimento per ogni questione formale, si attiene a cotanta rigidità sartoriale.

Ci sarebbe da dedicare un post al “discorso dell’uniforme” di cui il contrasto poco sopra citato – Piazza Ghiaia / fiera di Colorno in uniforme – è una chiara esplicitazione.

Al momento non intendo rinunciare alla giacca, simbolo distintivo e difensivo ad un tempo anche se inizio a vederne la vuota simbologia che mi ricorda quelle raffigurazioni bronzee di cardinali di non ricordo bene chi, forse Manzù, spersonalizzati dietro i pesanti e solenni paramenti.

Mi viene in mente quella serie di straordinarie opere che uno dei miei autori preferiti, proprio per quelle opere, Francis Bacon, ha dedicato al ritratto di Innocenzo X di Diego Velázquez degli studi straordinari.

In queste opere il Pontefice sembra chiuso in una gabbia che contiene ed esalta l’angoscia che divora il Papa.

Si tratta di abbandonare il discorso dell’uniforme (che non coincide con l’abbandonare l’uniforme, mio obiettivo per quest’anno e il prossimo).

Nella notte del 19 lugli ho fatto questo sogno: “Vado al lavoro a Colorno e trovo la cassaforte aperta e vuota: dentro c’erano 3 milioni di euro che, ovviamente, sono spariti.  Ci sono ancora le mie chiavi nella toppa, le mie chiavi, anche se non sono stato io, manco a dirlo. Provo l’orribile sensazione di essere colpevole, senza scampo, di una irreparabile negligenza anche, dopo un po’, riflettendoci, mi accorgo che le chiavi le avevo perse il giorno prima e che, allora, la mia responsabilità, forse, avrebbe potuto essere attenuata.

La cassaforte si trova, poi, a casa, anzi nel cortile, di Stefano R. mio compagno di giochi e di scuola delle elementari ed io parlo con una pattuglia di carabinieri o finanzieri delle chiavi smarrite.”

Un sogno che mi rimanda a Joseph K., protagonista de Il Processo,  di Franz Kafka; di questo romanzo, letto anni e anni or sono, ricordo solo la frase finale: « “Come un cane!” disse e gli parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere. »

Poiché anche questo è un pensiero, un prodotto di pensiero, è possibile farsene qualcosa.

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