Bullismo nel secolo scorso

Non ricordo di averne mai parato esplicitamente, potrebbe anche essere accaduto, ma oggi, sentendo in TV che è la giornata mondiale contro il bullismo e il cyber bullismo mi è venuta voglia di fare coming out.

Non che attribuisca a questo genere di iniziative un qualche valore (senza volerne sminuire l’importanza, per carità), piuttosto nel mio caso la giornata contro il bullismo ha svolto la funzione di madeleine, ha risvegliato qualche vago ricordo.

Correvano gli anni della mia scuola media, adesso si chiama scuola secondaria di primo grado, una definizione che mi fa rimpiangere quella da me mai amata di scuola media, quella che univa le elementari al liceo o istituti analoghi.

All’interno di questo triennio le scansioni temporali si fanno oscure, incerte, tutto o quasi è avvolto da una fitta coltre di nebbia che tutto uniforma e cancella; mi sento di escludere il primo anno, sul secondo mi sorge qualche dubbio, sul terzo ovviamente no, ma cosa successe?

Niente di che, un baldo giovanotto bocciato credo per la seconda volta, fece ingresso nella nostra classe, qualcuno fatto apposta per non piacermi visto che la mia formazione spirituale di allora (ancor più rigida di oggi) identificava l’andare male a scuola quasi come il male assoluto.

Questo ragazzo lo ricordo vagamente ma era probabilmente col fisico asciutto e utilizzerei il termine “nervoso”, con un viso particolarmente sgradevole, imbruttito da segni e cicatrici di un’acne giovanile che era stata particolarmente aggressiva ed impietosa.

Non sono sicuro, ma non escludo che fumasse – alla mia veneranda età posso confessare di mai avere provato una sigaretta, senza rimpianti.

Ragazzo turbolento, problematico, difficile da gestire anche per i docenti; questo soggetto che avrei volentieri confinato in un riformatorio e buttato la chiave, chi prese di mira per le sue intemerate?

In quella classe c’era un ragazzo, altissimo, magro, dinoccolato, impacciato, timido, studioso, pure un po’complessato, la vittima ideale del bulletto aggressivo e violento.

Non ne ricordo il nome, l’ho definito, decenni dopo, come “il persecutore”, tutto, lo ripeto, è avvolto nella nebbia, salvo il ricordo di paura, angoscia, all’idea di incontrarlo a scuola ogni mattina, poi c’erano periodi meno cupi ed altri più difficili,  ma tutto è vago, indistinto, sovrastato e sommerso da quel sentimento orribile che provavo, ancora oggi vivido nella memoria, come vivissimo, e risorgente quando ci penso, l’odio che provavo verso di lui, lo avrei visto molto volentieri morto stecchito.

Non ne parlai con nessuno allora, a casa non avrebbero capito, mia madre non era in grado di aiutarmi o sostenermi, né coi professori, sebbene avessi con ciascuno di loro un ottimo rapporto; la situazione di disagio di questo ragazzo era talmente palese che a nessuno di loro non poteva sfuggire ma mancava la capacità di trattare adeguatamente queste forme di disagio (quelle del tipaccio).

Non ricordo altro se non che la scuola giunse alla sua naturale conclusione, me ne andai al liceo scientifico e di questo compagno non ebbi più notizie, non so che fine abbia fatto, né mi interessa saperlo.

Ci fu un altro ragazzo, stavolta molto più grande di me e dei miei coetanei che, durante non ricordo quale tipo di gioco, nel cortile di casa di alcuni vicini, mi spense la sigaretta che fumava, sul dorso della mano.

Non ricordo molto altro, pochi episodi anche qui indistinti, meno gravi ma tutti connotati da un senso di oppressione fisica e impossibilità di difesa; durò poco questa frequentazione ma non ricordo nemmeno il perché, forse cambiò ancora casa – era un nuovo venuto – o forse iniziò a frequentare coetanei, lasciando al loro destino quelli che ai suoi occhi dovevano essere poco più che bambini.

Per quali motivi sia stato individuato come il destinatario di queste attenzioni non saprei dire; ho pensato al colore della pelle (mi chiamavano in dialetto parmigiano con un termine che si tradurrebbe con “negrone” (nigrò), oppure all’essere il classico bravo (troppo aggiungo oggi) ragazzo, troppo serioso rispetto all’età, oppure ancora per un orientamento sessuale che mi veniva attribuito.

O forse per chissà che altro; in ogni caso la connotazione era la diversità, un’eredità che mi porto dietro ancor oggi nello spirito; sono contrario alla teoria da scienze fisiche “post hoc propter hoc”, non ci sono automatismi ma, appunto di eredità, cioè di ricezione di qualcosa di riutilizzabile o scartabile come rifiuto (e mi viene da pensare che anche i rifiuti oggi sono diventati preziosi ed hanno un loro mercato).

Il desiderio di distinguermi, di non essere come gli altri mi ha sempre accompagnato, nel bene e nel male; di altro, al momento, non è utile parlare.

Credo poi di essere stato a mia volta uno che ha occupato il ruolo di bullo, in modo intellettuale, non ho mai concepito la violenza fisica, con forme di razzismo ed esclusione verso quelle che ritenevo imperdonabili diversità, in primis l’andare male a scuola.

Ho lavorato per comprenderne i motivi e lasciar cadere i frutti tossici che mi hanno accompagnato per tutta la vita o quasi.

Molto è stato finalmente archiviato, qualcosa ancora sopravvive ma in attesa di essere lavorato e destinato nel medesimo luogo di conservazione dei ricordi, come cicatrice che ricorda l’esistenza di un dolore, ma non più operativo nel presente.

In chiusura mi è venuto da chiedermi perché condividere queste esperienze che personalmente considero drammatiche (unite ad altre di cui preferisco ora non parlare) seppur sappia che al mondo tanti, tantissimi, hanno subito di molto molto molto peggio.

Non ho una risposta precisa ma una suggestione legata all’idea di pacificazione e di incoraggiamento: si può diventare un tranquillo signore attempato e un po’ estroso nonostante certe brutte esperienze.

Arrendersi mai!

Parma, 7 febbraio 2025, memoria di san Riccardo e del beato Pio IX

Caspita non sapevo mi dispiace il bullismo è davvero una brutta cosa

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