I preraffaeliti a Forlì

Chi fossero i preraffaeliti più o meno lo sapevo, che mi piacessero non era scontato.
Il museo civico di san Domenico, in quel di Forlì, ha organizzato una mostra dedicata a questa confraternita (mi piace, il termine confraternita), molto interessante, che ha meritato la visita che sono riuscito a concedermi, strappandomi un momento dal mio esilio.
Non ho le competenze per elaborare un trattatello in materia per cui rischio di scrivere solo banalità, mi scuserete.

I preraffaeliti mi richiamano alla memoria un romanzo che, ai tempi della mia giovinezza, era proposto come lettura per ragazzi, ambientato in un medioevo che fungeva da serbatoio per la fantasia un po’ come le opere di Emilio Salgari, Ivanhoe.

Seconda suggestione: le opere di George L. Mosse dedicate al nazionalismo ed al razzismo, dove si esplicita quell’elaborazione di idee che hanno a che fare con un passato recuperato per giustificare la politica di potenza del presente, quel brodo di coltura che arriverà a sfociare nella Grande Guerra e che, ancor oggi sembra ripresentarsi in alcuni paesi europei.

Era, infatti, il 1848, quando in Italia si combatteva in varie rivoluzioni, ad esempio le famose 5 giornate di Milano, l’anno in cui nella più tranquilla perfida Albione nasceva questa confraternita artistica che ebbe breve vita ma i cui influssi condizionarono i successivi sviluppi dell’arte europea.

William Holman HuntDante Gabriel Rossetti e John Everett Millias, ecco i fondatori: artisti che imputavano a Raffaello di avere privilegiato il bello rispetto alla realtà cosicché la pittura successiva si era trasformata in pura accademia, quell’accademia che essi intendevano abbandonare in favore dei predecessori dell’Urbinate.

Un ritorno al Medioevo ed al Rinascimento, rivisitati secondo il loro pensiero, quindi molto romantici, artigianale, una reazione alla “trionfante” rivoluzione industriale, con annessi e connessi a livello sociale ma anche di produzione industriale.

Pittori medioevali e rinascimentali, quindi, ma anche Dante e Shakespeare, autori adattissimi a fungere da ispiratori.

Venendo a Forlì, le numerosissime opere accompagnano il visitatore a scoprire questo mondo, con dovizia di variazioni sui temi; come sempre accade, di tanta bellezza alcune cose rimangono a scapito di altre (gli psicologi, i neo sacerdoti di oggi direbbero: “cosa ti sei portato a casa?”).

I fiori sicuramente: dalle nature morte dei fiamminghi è risaputo che amo moltissimo i fiori ed apprezzo la capacità di rappresentarli con estrema accuratezza.

Immagino che il loro utilizzo avesse anche risvolti simbolici che io ignoro ma li ho apprezzati comunque, a prescindere: il quadro permette di mescolare e far convivere fiori e valorizzare colori e contrasti che sono da sempre uno degli aspetti che più mi coinvolge.

Un trionfo di fiori ha inebriato i miei sensi nell’opera “Tiziano mentre prepara i colori per il suo primo dipinto” di William Dyce: tra le mani del giovane Tiziano ed i suoi piedi fanno bella mostra numerosi e colorati fiori, rappresentati a fianco di un’ampolla, dettaglio di squisita fattura.

Ma anche un autore a me sconosciutissimo, tal Charles Allston Collins, si è dato da fare coi fiori, in un’opera il cui titolo è lungo quasi come un romanzo: “I pensieri con cui un bambino cristiano dovrebbe imparare a contemplare le opere di Dio”.

Bella l’opera, il titolo è inquietante.

Vogliamo trascurare i ritratti? Uno, opera di Edward Robert Hughes, mi ha lasciato esterrefatto, sto parlando di “Studio per un quadro, fra Lippo Lippi”, gessetto su carta: straordinario nell’intensità dello sguardo e di una bellezza “ideale” che sembra quasi creata dall’intelligenza artificiale.

William Dyce è ancora rappresentato da una “omnia vanitas” in cui la bellezza muliebre è stemperata dal teschio su cui poggia ma ancor più dallo sguardo ad un tempo assorto ed assente.

Molto inquietante “La testa funesta” di Edward Burne-Jones: due personaggi ed una testa affacciati su un pozzo.

I personaggi sono Perseo ed Andromeda, la testa, quella di Medusa, che l’eroe mostra alla sua compagna utilizzando l’acqua del pozzo come se fosse lo scudo in modo da non pietrificarla.

Ci sono in mostra più di 300 opere quindi è impossibile non essere riduttivi e servirebbe un corposo saggio per accogliere tutti gli spunti che questa confraternita ha proposto, anche nelle sue contraddizioni irrisolte che hanno causato la rottura del sodalizio nel 1854.

Da parte mia azzardo una questione che probabilmente è una sciocchezza ma ogni volta che mi avvicino a questo periodo, con tutte le sue sfaccettature, ne ricavo l’impressione che ci troviamo di fronte ad uno snodo culturale, uno di quei momenti in cui viene rappresentata la crisi del rapporto tra uomo e donna.

L’attenzione alle donne è onnipresente, nelle opere esposte in mostra, il tema era caro ai pittori dell’epoca ma mi pare che le donne qui protagoniste siano o stiano per diventare qualcosa di misterioso, occulto ed incomprensibile, non più partner ma “oscuro oggetto del desiderio”.

Donna come enigma, da idolatrare o beatificare, sensualissima o castissima ma non partner; mi viene l’immagine della lampada che attira le falene.

Una seconda ed ultima nota riguarda il troppo: c’è troppo in queste opere, non in tutte ovviamente, ma il clima che si respira, guardandole è quello dell’eccesso.

L’eccesso che trasuda dal decadentismo, la compensazione, forse di una perdita, non mi sento di dir di più.

Una mostra splendida di cui ringrazio gli organizzatori.

Forlì, 27 giugno 2024 memoria di San Cirillo d’Alessandria, Vescovo e dottore della Chiesa


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