Leggere la seconda fatica editoriale dell’amico Gabriele Trivelloni e dei suoi colleghi in questo speciale lavoro mi ha generato sin dall’inizio una suggestione, anzi risvegliato un ricordo: ho visto in varie occasioni, l’ultima a Bergamo, un albero della vita.
Questo tipo di rappresentazioni, un albero di grandi dimensioni, dai cui rami pendono o comunque spuntano figure di santi e beati sono la rappresentazione iconografica di un’eredità che ha prodotto frutti.
Alla base c’è Gesù oppure un santo fondatore di qualche ordine e sui rami i successori che hanno fatto proprio il tesoro lasciato dal capostipite e lo hanno riproposto nelle forme del proprio tempo: un’ottima descrizione di quella che è una buona definizione di eredità (per cui non serve il decesso del padre).
L’immagine è di tipo religioso ma quel che andrò a dire nulla ha a che vedere con la religione.
Questa rappresentazione ha a che fare col libro intitolato “Per un pensiero non sostituito” proprio per via dell’eredità a babbo vivo che il volume propone: un metodo di lavoro, di appropriazione (non indebita) del lavoro di altri per farne qualcosa in proprio in modo che il prodotto (giustamente definito “frutto” torni sul mercato, unico caso in cui il mercato è sicuramente e virtuosamente globale.
Ci sono anche dei babbi vivi “illustri” in questo albero: il pensiero di Cristo, Sigmund Freud, Giacomo B. Contri, da cui la “comitiva” ha tratto materia prima a piene mani, un caso ben riuscito di eredità.
Letteralmente asfissiati dai cascami della pandemia e dalle nuove preoccupazioni dovute alla guerra in corso, il pensiero di ciascuno (il mio per primo) spesso vacilla, rischiando di cadere negli abissi della melanconia (oggi banalizzata in depressione).
Se mi metto a guardare retrospettivamente, diciamo negli ultimi sei mesi, non riesco a ricordare un dialogo che non fosse connotato proprio da questo dato, la depressione: dialoghi deprimenti nella stragrande maggioranza dei casi, anche nell’eventuale formazione reattiva dell’euforia (devo espungere dalla lista i preziosi incontri telefonici con un amico a me carissimo che vive un lungo momento di difficoltà di salute e poco altro): tutto sembra un plumbeo cielo in cui le nubi bloccano ogni raggio di sole.
Poi si prende in mano il libro “Per un pensiero non sostituito” e si scopre che è possibile dedicarsi ad altro: l’esperienza non è una novità assoluta ma ha una data di inizio (o meglio di prima formalizzazione in un testo edito) nel 2020 con la pubblicazione del volume “Per un pensiero non sospeso”.
Il modo di procedere è lo stesso: il lavoro di un gruppo di persone – un docente ed alcuni studenti universitari – che si dedica a trattare della soddisfazione e del suo vocabolario, sulla falsariga dei protagonisti del Decamerone di boccaccesca memoria.
Ai tempi imperava la peste, era il pensiero dominante dal quale pareva non esserci via di scampo, ora le preoccupazioni sono altre ma l’invasività del problema dominante non è certo minore, anzi.
I rovi che ostacolano e soffocano la crescita del grano sono oggi amplificati dai media che rendono accessibile a chiunque ogni pensiero, anche il più folle, appiattendo tutto in un veloce susseguirsi di lampi che lasciano acciecato il pensiero che non si fermi a meditare.
Questo è il motivo per cui l’iniziativa del gruppo che ha elaborato questo secondo volume è fortemente encomiabile: lasciare da parte rovi e difficoltà varie e riprendere un lavoro di cura del giardino (come diceva il buon Voltaire) che ad un tempo può divenire abitabile ed accogliente e produrre anche frutti gustosi.
Lavoro che è filosofico e quotidiano, da compiere in ogni atto, dall’alzarsi al mattino all’andare a dormire la sera: “siamo sempre di fronte a un bivio: discernere gli eventi naturali come favorevoli o meno e sanzionare gli atti altrui come ostili, lasciandoli perdere e giudicandoli fuori dalla propria norma; oppure ereditare unicamente ciò che può essere reinvestito”.
Questo bivio si sostanzia, nel libro, in un vocabolario che viene declinato senza la necessità di un sistema (si procede a ruota libera, in base alla materia prima di cui si dispone e agli eccitamenti ricevuti), con la libertà di tornare anche su questioni già trattate per trarne ulteriori margini di profitto.
Un lavoro in libertà che può tranquillamente passare da citazioni di Kant o Cartesio, alla musica di Mozart e Verdi, ai pannolini perché se è vero che l’uomo è una costituzione a due gambe, questa norma va giocata in ogni momento.
Tanto da farmi pensare che il “ritiro” del gruppo dal mondo sia un semplice artificio che serve per suggerire che quel lavoro apparentemente elitario e distaccato dal resto del mondo, è in realtà la modalità quotidiana dell’agire (e prima, del pensare), possibile ad ogni uomo.
Il libro propone di continuare la strada, tracciata dagli illustri “babbi” che ho citato all’inizio, di recupero di una normalità che non è la rassegnazione di fronte ad uno stato di cose pensato come inevitabile e irriformabile: un lavoro pacifico, sperabilmente fruttuoso, sicuramente non invidioso, lamentoso, melanconico.
Freud lo diceva a proposito della psicoanalisi: “L’intenzione degli sforzi terapeutici della psicanalisi è in definitiva di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es. Dov’era l’Es, deve subentrare l’Io. È un’opera della civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee”.
Lo Zuiderzee è stato per secoli un problema (una fissazione – un pensiero unico) per gli olandesi per via delle sue catastrofiche inondazioni (1916), la sua bonifica ha trasformato il problema in un beneficio di cui hanno iniziato a godere le generazioni che hanno realizzato e quelle che hanno ereditato l’opera.
Chiudo evidenziando che la bonifica dello Zuiderzee non è stata un’opera svolta in solitaria, ma per questo correte ad acquistare e leggere il libro: buon profitto a tutti.
Parma 23 ottobre 2022