Mi aggiravo per i giardini di Villa Borghese quando mi sono imbattuto in una spianata da cui si vedeva un grande palazzo sorvegliato da leoni.
I leoni erano un’installazione mentre il palazzo altro non è che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna; frugando nella memoria mi pareva di averla già visitata, nel secolo precedente, ma nessuna certezza mi ha confortato ed allora perché allontanarmi senza farci un salto?
Il tempo di scapicollarmi con la dovuta prudenza giù per i gradini del parco ed eccomi a risalire quelli del palazzo della Galleria.
Ancora dopo la visita non mi è si è sciolto il dubbio sulla precedente visita, il che mi preoccupa non poco, ma è vero che molte delle opere le avevo in memoria quindi è probabile che vi sia stato sul serio, in un momento imprecisato del passato.
Veniamo alla Galleria: un altro dei tanti luoghi magici della Città Eterna.
Sono numerosissime le opere, capolavori, che la Galleria custodisce: iniziamo da una gigantesca, Ercole e Lica, di Antonio Canova, opera che venne acquistata, dopo varie vicissitudini da Giovanni Torlonia, il collezionista della famosa raccolta.
Ercole e Lica è una rappresentazione drammatica, una scusa la chiamerei io, per fare sfoggio dell’abilità che non mancava di certo a Canova: i corpi, di fatto nudi, hanno pose plastiche che mettono in evidenza gli sforzi muscolari: Ercole, impazzito per il dolore, scaglia in mare il povero Lica, incolpevole latore della tunica imbevuta del sangue del centauro Nesso, causa dell’atroce sofferenza del semidio (Lica caduto nel Mar Egeo venne trasformato in roccia dando origine alle Isole Licadi).
Sparse per le sale ci sono anche varie divinità dell’Olimpo, anch’esse in origine a Palazzo Torlonia, abbattuto per la costruzione del Vittoriano.
Girovagando, senza alcuna pretesa di sistematicità, ho apprezzato un gran numero di opere davvero belle: parto da un paio di quadri di Giulio Aristide Sartorio, un autore che ho scoperto nelle mie visite forlivesi.
Le due opere esposte a Roma risalgono al periodo in cui Sartorio insegnava all’Accademia di Weimar, dove aveva conosciuto Nietzsche.
Si respira un’aria di grande sensualità ma, contemporaneamente, anche un senso di eccesso, forse disfacimento, come se il raffinato estetismo altro non fosse che l’ultima tentazione che rivela, tuttavia, la sua inconsistenza.
Raffinata ed eccessiva la Cleopatra di Alfonso Balzico, artista a me del tutto sconosciuto, sembra fare da contraltare al Nudo neoclassico di Francesco Trombadori, dove un’opulenta matrona, che nulla ha da invidiare a Giunone, nella sua essenzialità mostra il meglio di sè in uno stile che mi ricorda Tamara de Lempicka.
Varie opere di Burri, De Chirico, Boccioni, Tenerani, mi accompagnano per le stanze, fino ad alcune opere di grandi dimensioni: sono i quadri delle battaglie delle guerre di Indipendenza italiane oppure di quella d’Eritrea.
Ma c’è anche un bel “I vespri siciliani” di Francesco Hayez, sempre nello spirito risorgimentale della costruzione di un paese unitario: sono interessanti testimonianze di un periodo che vedrà successivamente grandi disillusioni ed amarezze.
Molto bella la statua di Susanna (la casta Susanna di biblica memoria) opera di Francesco Fabj Altini, altro ignoto eccellente per la mia incommensurabile ignoranza.
Ci sono poi una serie di calchi in gesso, tutti molto interessanti, per arrivare al Ritratto del Conte Guelfo Estense Trotti Mosti, opera di Lorenzo Bartolini, una bella opera con protagonista un nobile di origini ferraresi di cui non sono riuscito a trovare alcuna traccia.
Un’opera di Van Gogh, un giardiniere, una di Silvestro Lega, un De Nittis molto bello: “Le corse al Bois de Buologne”, splendida rappresentazione dell’alta società che si ritrova ad un evento mondano, non manca davvero nulla in questa Galleria.
“Piazza San Marco” di Michele Cammarano è un’altra descrizione del medesimo ambiente, dell’identica atmosfera, borghese, elegante ed eccessiva.
Di questo periodo è ulteriore testimonianza un’opera famosissima “Le tre età della donna” di Gustav Klimt: mi piace molto il pittore austriaco anche se, in questo caso, non mi ci ritrovo per nulla.
Ma ecco un’altra opera “inquietante”, “Il voto” di Francesco Paolo Michetti (altro a me sconosciuto): si tratta della rappresentazione di una processione in occasione della festa di San Pantaleone a Miglianico, in Abruzzo, in provincia di Chieti.
Il voto, quello che fa da titolo all’opera, consisteva nel leccare il pavimento della chiesa fino alla statua del santo (evidentemente non erano in periodo di pandemia).
Uno splendido busto di San Francesco, opera di Adolfo Wildt, altro artista che ho scoperto a Forlì e che, da allora, ho iniziato ad amare come uno dei preferiti, mostra il santo talmente emaciato da parere diafano, a sottolineare la scelta di povertà senza compromessi che è stata una caratteristica dell’assisiate e che tanto ha attratto i contemporanei, salvandone molti dal fascino dei rigorismi del catarismo.
Tra le statue in gesso, credo siano calchi, ne ho notate alcune che mi hanno incuriosito, ad esempio quella di frate Giuseppe da Forio, opera di Alfonso Balzico; incuriosito perché il nome del frate mi risultava del tutto sconosciuto.
Sono andato, allora, alla ricerca di qualche informazione ed ho scoperto che questo curioso personaggio, al secolo Erasmo Di Lustro, è stato uno dei primi (ed entusiasti) biografi di Giuseppe Garibaldi.
Il che la dice lunga su quale cervello avessero certi preti dell’epoca: come si facesse a sostenere Giuseppe Garibaldi, da parte di un prete mi resta inspiegabile (ma sempre ce ne sono stati, a partire dagli apostoli).
Sempre di Alfonso Balzico c’è una bella statua di “Nello della Pietra e Pia de’ Tolomei“, che raffigura l’infelice coppia la cui fama, di lei, è dovuta a Dante che a Pia, vittima di uxoricidio, fa dire:
“ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma”.
Ho apprezzato anche due opere di Alberto Giacometti: la figura femminile mi sembrava fare da contraltare alla giunonica donna di Trombadori.
La visita è terminata con un’esposizione temporanea, intitolata “Micro e Macro” dedicata a Wang Yancheng, famoso artista cinese, francese di adozione.
Le sue opere mi sono piaciute molto anche se la dichiarazione dell’autore il quale sostiene che “unendo scienza ed arte si può scoprire la verità del futuro” mi lascia assai perplesso perché la verità non è mai frutto della scienza ma del giudizio dell’uomo.
Bene, concludo qui, evidenziando che, come al solito, sono tantissime le opere che ho trascurato e che meriterebbero attenzione ma non ho le competenze per poterlo fare e rimando, quindi, alla visita delle sale e alla fruizione personale.
Roma, 16 ottobre 2020, memoria di Sant’Anastasio di Cluny, monaco