Uno stralcio da un colloquio di oggi, venerdì 25 settembre: ” lei preferisce dare retta ad una dattilografa di xxx piuttosto che a me che sono XXX (ometto la funzione esercitata)?”
Appunto solo un lacerto perché il tono del colloquio è stato tutto impostato su questo tenore; quando poi mi sono permesso di obiettare al vaniloquio di questa persona, che aveva sproloquiato su argomenti quali l’educazione, il rispetto ed altri argomenti di altissimo rilievo sociale, la signora mi ha “gentilmente” risposto che lei aveva molto da fare, cosa di cui sono convintissimo, salvo continuare a sprecare il suo preziosissimo tempo per impartire una lezione di vita alla persona che era con me.
Mi ha trattato, come si suol dire, coi piedi.
Sinceramente ci sono rimasto male ma non tanto per il modo col quale ha fatto pesare il suo presunto sapere o potere, mascherato da discorsi da leguleia d’accatto (chiedetevi, chi mi conosce può intuirlo facilmente, che lavoro può fare un leguleio d’accatto?), quanto per il disprezzo manifestato verso chi certe funzioni non esercita e, magari, si limita a fare la semplice dattilografa.
Credo, peraltro, che le dattilografe si siano nel frattempo estinte ma poco importa.
Tra l’altro è il secondo caso di “maltrattamenti” che subisco a breve distanza di tempo; queste occasioni mi spingono a meditare su un tema cui sto pensando da alcuni giorni.
Tutto nasce da un ricordo dei tempi delle scuole medie: il mio professore di applicazioni tecniche mi fece un discorsetto che oggi rivaluto come un momento molto positivo, di “favore”, ebbene questo professore, terminata la seconda classe mi disse: “so bene che tu avresti scelto di studiare latino piuttosto che applicazioni tecniche, ma visto che non potrai farlo, sappi che io non ti sarò fonte di problemi”.
Citazione non testuale ovviamente, ma il succo era questo.
Questo professore, insomma, mi ha trattato bene, mi ha considerato una persona in grado di interloquire da pari a pari, quasi un adulto oserei dire, e non come uno studentello sottoposto al suo potere di docente.
Non ricordo, e mi dispiace, il nome di questo docente che, tra l’altro ne fece un’altra di cortesie: il giorno dell’esame di terza media, incontrandomi fuori dalla scuola, mi fermò per suggerirmi quale domanda mi avrebbe fatto; ci teneva che facessi bella figura e coronassi con un bel voto un percorso di studi che era stato eccellente.
Lo ringraziai, come sono stato abituato a fare; quando venne il momento fatidico ero talmente agitato che, lo immaginerete, mi dimenticai completamente della risposta che mi era stata suggerita e riuscii quindi a sbagliare; l’esito finale non ne ricevette alcun danno ma l’episodio lo ricordo come curioso perché accadde per iniziativa del professore.
Confesso che io mai avrei preso l’iniziativa di chiedere ad un professore di anticiparmi una domanda d’esame.
Un evidente palese contrasto tra i trattamenti che ho descritto: uno favorisce il pensiero e l’iniziativa dell’interlocutore mentre l’altro lo vuole semplicemente sottomettere.
Utilizzare il (presunto) potere, ammantato di falsa umiltà è un modo per evitare l’imputazione dei propri atti, per bloccare il giudizio che l’altro può fornire, è una debolezza che viene celata dall’arroganza e dall’incapacità di trattare l’altro come partner.
Perché dedico attenzione a questi episodi? Lo ammetto: per gli strascichi che lasciano, perché ritrovo in me una certa difficoltà o fatica a chiuderli nei tempi e modi che meriterebbero.
Evidentemente una ferita aperta che prescinde dai casi specifici, una provocazione a pensare, cioè curare, quel che mi sta davvero a cuore che non può essere farmi carico del disagio altrui.
Nel verso dantesco “non ti curar di lor ma guarda e passa” c’è una verità da tenere ben presente: non è tanto il disprezzo che il poeta vuole dimostrare nei confronti degli ignavi, quel che conta è l’idea del curar, cioè dell’avere cura.
Invito ad avere cura di ciò che interessa perché solo in questo è possibile che accada qualcosa di nuovo, che vi sia produzione sfruttabile poi da altri.
Un modo per evitare l’imputazione dei propri atti, per bloccare il giudizio che l’altro può fornire, è una debolezza che viene celata dall’arroganza e dall’incapacità di trattare l’altro come partner.
Perché dedico attenzione a questi episodi? Lo ammetto: per gli strascichi che lasciano, perché ritrovo in me una certa difficoltà o fatica a chiuderli nei tempi e modi che meriterebbero.
Evidentemente una ferita aperta che prescinde dai casi specifici, una provocazione a pensare, cioè curare, quel che mi sta davvero a cuore che non può essere farmi carico del disagio altrui.
Nel verso dantesco “non ti curar di lor ma guarda e passa” c’è una verità da tenere ben presente: non è tanto il disprezzo che il poeta vuole dimostrare nei confronti degli ignavi, quel che conta è l’idea del “curar”, cioè dell’avere cura.
Invito ad avere cura di ciò che interessa perché solo in questo è possibile che accada qualcosa di nuovo, che vi sia produzione sfruttabile poi da altri.
Parma, 28 settembre 2020, memoria dei Beati Giuseppe Tarrats Comaposada, Niceta (Mykyta) Budka, Amalia Abad Casasempere e Francesco Saverio Ponsa Casallarch, martiri