Centrale Montemartini

La Centrale Montemartini è stata la scoperta di questa gita romana, un’autentica scoperta, di quelle che non ti aspetti.

Ci si arriva con la metro in direzione di san Paolo fuori le mura, quindi sulla via Ostiense, in una zona che non si riesce a dire bella nemmeno grazie al fatto che si trovi a Roma (dove trovo quasi sempre tutto bello).

La giunta Nathan affidò all’Azienda Elettrica Municipale la gestione della prima centrale termoelettrica dell’Urbe, inaugurata nel 1912 e dedicata a Giovanni Montemartini, consigliere comunale morto durante una seduta del Consiglio.

Funzionò solo mezzo secolo il che mi fa pensare che non sia stata una scelta molto oculata economicamente ed industrialmente parlando, ma sono profano in materia quindi non approfondisco.

La centrale funzionava con turbine affiancate a motori diesel, le prime fornivano l’energia per l’uso continuo, i secondi funzionavano nelle ore di maggior consumo; i macchinari erano forniti dalla ditta Enrico Tosi di Legnano.

Dopo decenni di abbandono,

un’operazione di recupero e restauro e al destinazione a centro museale l’ha trasformata in un luogo fuori del comune perché unisce, in felice sintesi, una bella raccolta di opere di archeologia ed ambienti industriali del secolo scorso, esempio di archeologia industriale.

Prima di parlare di alcune opere tra le tante, voglio ringraziare il personale presente, specie gli addetti del piano superiore e la guardia giurata (che era lì solo per quel giorno): sono stati accoglienti, cortesi, simpatici, ci hanno intrattenuto durante il temporale che ci ha colti di sorpresa mentre eravamo intenti alla visita.

Grazie di cuore perché sono stati deliziosi, la guardia giurata, inoltre, aveva un modo di fare proprio da romano de Roma tipico che mi ricordava alcuni colleghi riminesi (de Roma pure loro, ovviamente): davvero spassoso.

Bene, veniamo alle opere:

l’inizio è un gustoso antipasto di vasi greci, di quelli a figure nere o rosse, ne avevo fatto un’abbuffata nel mio ultimo passaggio a Ferrara, al Museo Nazionale di Spina, ma è sempre un piacere osservare queste interessantissime rappresentazioni di scene mitologiche, di battaglie stilizzate e animali curiosi.

Mi ricordano sempre la mia giovinezza, quando da studentello delle scuole medie, avevo un corposo, anzi ponderoso libro di epica, una parte del quale era dedicata alla mitologia greca: l’avevo divorata letteralmente, quella sezione, affascinato dalle tresche molto umane delle divinità e dalle avventure spesso tragiche, degli eroi.

Credevo di saperne un po’ in materia ed invece ad ogni museo scopro un nuovo episodio, un personaggio, insomma non finisco mai di imparare; in questo caso, ad esempio, ho notato un cratere con rappresentazione del duello tra Heracle (Ercole) e Kyknos.

Chi era mai questo Kyknos? in italiano chiamato Cicno, era un gigante figlio di Marte che aveva derubato Ercole di alcuni suoi buoi usando uno stratagemma; scoperto pagò, com’era d’uso ai tempi, con la vita; nello scontro intervenne anche il padre, Ares (Marte) che finì pure lui a mal partito.

Questo mito venne poi riutilizzato da Virgilio nell’Eneide ma Cicno cambia nome e diventa il ben più famoso Caco, anch’egli reo di abigeato commesso con l’inganno di trascinare i buoi per la coda in modo che le impronte indichino la direzione opposta a quella reale.

Ho anche imparato un vocabolo nuovo,

con annessi e connessi, su cui non mi intratterrò né procederò ad approfondimenti, il termine è itifallico, vocabolo che appartiene al registro colto della nostra lingua; in mostra c’è un piatto attico a figure rosse con sileno itifallico danzante recuperato da quei meravigliosi carabinieri del nucleo di tutela del patrimonio artistico (quando mai volessero cooptarmi nelle loro fila sono sempre pronto).

Oltre ai tanti vasi e a numerosi frammenti di scene di varie genere (anche etruschi), c’è una deliziosa parentesi che mai avrei potuto perdermi: in un salone appositamente dedicato viene esposto il treno del beato Pio IX.

Un piccolo convoglio composto di tre carrozze, che fece il viaggio inaugurale il 3 luglio 1859 dalla stazione di Porta Maggiore a quella di Cecchina ad Albano; la prima carrozza è la loggia delle benedizioni, la seconda la sala del trono e l’ultima la cappella per le celebrazioni.

Un autentico inaspettato gioiello.

Ci sono poi vari mosaici, alcuni provenienti dalla chiesa di santa Bibiana, chiesa un po’ trascurata nei pressi del retro della stazione Termini che custodisce una statua, opera del mio mitico Gian Lorenzo Bernini: si tratta di una movimentata e gustosa scena di caccia, bella come tutti i mosaici, tecnica che io apprezzo moltissimo.

Altri provengono da varie zone di Roma; c’è un bel Leone con amorini (o meglio eroti) ma soprattutto una scena nilotica, un tema che ho già visto declinato in altri mosaici, anche se non ricordo dove, che mi piace sempre tantissimo per via del numero di soggetti di piccole dimensioni che creano un’impressione di gran movimento.

Ci sono anche alcuni frammenti di animali del mare, un polipo (credo) ed una conchiglia di cui ignoro il nome (in riminese lo definirei un garagolo)

Segue una sezione “funeraria”, un altro tema, quello dei monumenti funerari, che non mi lascio scappare; è qui che trovo il famoso Togato Barberini che regge le imagines degli antenati illustri, secondo la facoltà prevista dallo ius imaginum di cui ho già parlato.

Ma anche una bella statua di Togato, alcuni sarcofagi e svariati ritratti, alcuni molto belli nella loro naturalezza; notevoli, a mio gusto, anche alcune lapidi con i volti delle persone defunte (una ad arco con sei volti è splendida); due sarcofagi contengono ancora gli scheletri,  insomma c’è un po’ di tutto per quanto riguarda l’ultimo viaggio.

I sarcofagi non sono all’altezza di quello grande Ludovisi ma nemmeno trascurabili, anzi di tutto rispetto: da quello del Buon Pastore a quello con Ercole, ad un altro con scene dal Vecchio e Nuovo Testamento a quello con Apollo e Marsia o con le Vittorie alate, anche qui gran variazione di temi, tutti da osservare con attenzione perché sono i dettagli che fanno le opere grandi.

Ancora statue, Zeus, statue acefale, una curiosa Testa di Priapo (che non è un insulto di registro elevato), svariati ritratti, sempre di grande bellezza (anche se i modelli non erano proprio degli adoni), un altro sarcofago con caccia al cinghiale e cattura del cervo con le reti, vari rilievi, un cinghiale in lotta con una pantera, una statua di Hermes con ariete sacrificale, una Statua di Silvano, insomma l’elenco è lungo, lunghissimo ma ogni pezzo merita attenzione.

Ad esempio la stele funeraria di Sulpicio Massimo,

un giovanissimo poeta, vincitore o comunque partecipante di un certamen capitolinum del 94 d.C.; all’età di 11 anni incanta i romani e l’imperatore stesso (Domiziano) per morire precocissimamente pochi giorni dopo: la stele riproduce tutti i versi della sua composizione rendendo eterni ad un tempo la composizione (di cui ignoro il testo) ed il suo talentuoso autore.

Alla Centrale Montemartini non mancano alcuni frammenti di statue gigantesche, un bel Marsia in marmo rosso violaceo, una bella Statua di fanciulla seduta, poi quelle dedicate a Giove Capitolino dai re dell’Asia Mitridate IV del Ponto e Ariobarzane I (o II) della Cappadocia per arrivare a quelle, lo ripeto? splendide, del frontone del Tempio di Apollo Sosiano: vi sono rappresentate la lotta tra Greci ed Amazzoni con protagonisti Ercole e Teseo, alla presenza di Atena e Nike.

Un altro mosaico: il ratto di Proserpina (povera, piccola e tenera Proserpina) coi busti delle stagioni agli angoli ed una deliziosa paperella; splendido il mosaico, scabroso il tema, soprattutto in tempi cupi come questi in cui tutto quel che urta il pensiero dominante rischia di finire censurato senza pietà.

Chiudo con un pezzo che ha attirato la mia attenzione: un’aquila all’interno di una corona muralis, probabilmente facente parte di un arco di trionfo dedicato a Germanico post mortem in ricordo della campagna che aveva portato al recupero di due delle insegne perse da Varo nella tremenda disfatta di Teutoburgo del 9 d.C., famosa a tutti gli studenti per la frase pronunciata Augusto, secondo quanto ci riferisce Svetonio (“Vare, redde mihi legiones”).

Una digressione: a Teutoburgo combattè, quale traditore dei romani, tal Arminio, principe dei Germani Cheruschi, che divenne figura simbolo dell’indipendenza da Roma ai tempi della Riforma luterana, venne altrettanto valorizzato, sempre in funzione nazionalistica, ai tempi del nazismo ma che è bene ricordare che venne sconfitto da Germanico e finì l’esistenza assassinato dai suoi che ne temevano l’eccessivo potere.

Una parabola che ricorda molti politici contemporanei (anche se questi sono condottieri da operetta).

Una particolare sezione era dedicata a Miresi, una fotografa (?) italiana che vive da anni a Berlino e che presenta una serie di foto di ambienti, dalla Sagrada Familia di Barcellona e Bundestag di Berlino ad ambienti industriali abbandonati e degradati; belle le foto ma non aggiungo altro.

Qui finisce la visita alla Centrale Montemartini, un luogo che è riuscito ad incuriosirmi e farmi valorizzare quel mondo della tecnologia cui normalmente sono del tutto alieno.

Il tempo inclemente non ha così disturbato troppo la visita dell’Urbe.

Un buon bottino, come spesso mi succede quando visito questi ambienti straordinari.

Roma, 4 luglio 2020 memoria del Beato Piergiorgio Frassati Terziario domenicano, di Sant’ Antonio Daniel Sacerdote e martire, di San Cesidio Giacomantonio Martire, e dei Beati Giovanni detto Cornelio, Tommaso Bosgrave, Giovanni Carey e Patrizio Salmon
Martiri, del
Beato Giuseppe Kowalski Sacerdote salesiano martire e dei Beati Guglielmo Andleby, Enrico Abbot, Tommaso Warcop ed Eduardo Fulthorp Martiri

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