La mostra che Palazzo Reale, a Milano, dedica ad Albrecht Dürer è da non mancare come quasi sempre questo genere di esposizioni allestite nella città che è europea ancor prima che italiana; io l’ho visitata sabato 9 giugno scorso.
Assieme al protagonista non sfigurano certo gli altri autori presenti: Lucas Cranach, Albrecht Altdorfer, Hans Baldung da un lato, e dall’altro Giorgione, Andrea Mantegna, Leonardo da Vinci e Lorenzo Lotto.
I tedeschi sono tutti fantastici, non che Leonardo o Mantegna siano da meno ma mi trovo molto consonante con i pittori teutonici.
Di Dürer conoscevo alcune opere o perché già viste in giro o perché così famose da essere facilmente reperibili online, la mostra conferma il mio apprezzamento per questo autore che sa rappresentare magnificamente alcuni temi che prediligo.Ignoravo, invece, un dettaglio che me lo ha reso particolarmente simpatico: in una lettera inviata da Venezia a Norimberga, a Willibald Pirckheimer, in fondo, c’è una caricatura di donna che potrebbe assomigliare molto ai miei ritratti di quando avevo 6 o 7 anni (e non diversi da quelli che riuscirei a produrre oggi), un disegno davvero curioso e piacevole.
Ma veniamo alle opere in mostra, iniziando dalla splendida Adorazione dei Magi che ho trovato incantevole per i dettagli minutissimi e per la ricchezza della scena che rappresenta, senza margini di dubbio, un sovrano che riceve la visita di altissimi dignitari.
Chi oggi vuole sfruttare l’argomento di Gesù come profugo, nato all’estero e perciò, ultimo tra gli ultimi, discorso politicamente molto interessato, dimentica che Gesù era un sovrano in esilio, non un profugo qualunque, col massimo rispetto per ogni profugo e per tutte le vite umane messe a rischio da quei delinquenti degli scafisti.
Seguono alcuni ritratti di donne, da quello della giovane veneziana alla Donna di Norimberga in abito da casa, deliziosi nella raffinatezza che li contraddistingue.
C’è poi un’opera fantastica, che già avevo visto, se la memoria non mi gioca brutti scherzi, a Madrid; si tratta del famosissimo “Cristo tra i dottori” che ha in primo piano un grottesco ritratto di un brutto ceffo che potrebbe ben figurare ne “Il Signore degli anelli” come un capo di Uruk-hai, i poco rassicuranti orchi creati da Saruman.
C’è chi sostiene che i volti manifestino le reazioni, poco rassicuranti, dei dottori alle parole di Gesù, c’è chi sostiene che siano un catalogo delle, tanto di moda oggi, emozioni ed infine chi, io, sostiene che l’opera sia un evidente plagio del ben più famoso enumerare con le dita dell’eterno (e perciò preesistente) Silvio Berlusconi nazionale in occasione di recenti consultazioni al Quirinale per la formazione del governo.
Il gesto delle mani del vecchio/orco sembra suggerire una forma di patente paternalismo che oggi potremmo trovare in tanti maestri di vita cattocomunisti, della serie: “adesso ti spiego io come va il mondo”.
Opera meravigliosa e lombrosiana ante litteram.
Altro capolavoro, presente in copia, è la Pala del rosario, conosciuta come “Festa del Rosario”, che mi ha colpito in particolare per il volto dell’uomo con l’armatura, inginocchiato: un volto molto bello, con un’espressività modernissima; non meno bello l’autoritratto del pittore sul lato destro, accanto all’albero.
A parere dell’amico Gabriele Trivelloni che ha visitato con me la mostra, quell’uomo potrebbe essere l’imperatore futuro) Carlo V.
Un’altra opera straordinaria è “Il cavaliere la morte e il diavolo”, di cui ho trovato numerose informazioni interessanti, tra le quali segnalo quella del professor Claudio Bonvecchio:
quest’opera è una incisione a bulino su lastra di rame; in basso a sinistra c’è il monogramma A. D. (Albrecht Dürer) con la data (1513) preceduta dalla lettera “S”: “Salus” che pare significhi Salvezza.
Vi è ritratto un cavaliere (in tedesco Ritter) che cavalca indomito un maestoso destriero– statuario nell’atteggiamento e riccamente vestito di una magnifica armatura, con elmo alla tedesca e armato di lancia e spada.
Il Ritter è accompagnato da un cane, simbolo di fedeltà, quindi di fede, si dirige verso una meta lontana che potrebbe essere la Norimberga città natale di Dürer oppure la Gerusalemme celeste dell’Apocalisse, meta ultima di ogni cristiano. Ambiguità che sarebbe inutile voler chiarire.
Nel suo viaggio, in una landa desolata sovrastata da un paesaggio roccioso, il Cavaliere ha una pessima compagnia: la morte e il diavolo che altro non sono che i “terricula et phantasmata” (spauracchi e fantasmi) citati da Erasmo da Rotterdam nell’Enchiridion che il “miles christianus” deve tenere a bada come sembra che il nostro cavaliere stia effettivamente facendo.
La morte è raffigurata come un personaggio non esattamente gradevole, speculare al Ritter, come lui a cavallo, non meno di lui ornata di tutto quanto le compete in quanto macabra sovrana delle umane sorti: corona regale e clessidra, attributi che rimandano alla sua ineluttabilità e alla vacuità del tempo che fugge (Angelo Branduardi cantava, non molti anni fa, “sono io la morte e porto corona, io son di tutti voi signora e padrona”).
Come seguito, il Ritter ha uno strano personaggio, un viso da porco, lunghe orecchie da lupo, tratti da caprone, zampe caprine e un enorme corno a forma di mezzaluna, ed è pure armato di una picca, giusto per non farci mancare niente.
Sul terreno è visibile anche una salamandra che fa buona compagnia al cane e ad un teschio e che rappresenta la forza che supera ogni ostacolo come il rettile che esce indenne dal fuoco.
Pare che Dürer concepisse le sue opere come manifestazioni delle idee platoniche, legandosi alle teorie di Marsilio Ficino.
Quel che è interessante è che quest’opera è piaciuta a Nietzsche che si identificava con la lotta solitaria del Cavaliere ed anche a quelle correnti antiborghesi e conservatrici del mondo germanico che pensavano, in chiave nazionalistica, ad un nuovo tedesco munito delle virtù del Ritter.
Poteva un boccone così ghiotto sfuggire a quel maestro di propaganda che fu Adolf Hitler? la risposta la troviamo in questa curiosa definizione “Der Bannerträger“ che credo significhi qualcosa del tipo “Il portabandiera”; ebbene il famigerato dittatore ha utilizzato il richiamo evidentissimo all’opera di Dürer per accreditarsi come colui che, indomito e sprezzante di ogni pericolo e sacrificio, conduce la neonata nazione tedesca verso le mete di gloria che le competono.
Lo stesso metodo, il santo/cavaliere, ci dice George L.Mosse, venne utilizzato in chiave anticomunista, dopo la seconda guerra mondiale.
Un’opera, insomma, di straordinaria potenza evocativa, che ancora in tempi recenti ha avuto successo.
Non mancano, in mostra, nemmeno i classici Adamo ed Eva, sempre bellissimi, ma quel che mi ha attirato maggiormente è stata la “Porta dell’Onore dell’imperatore Massimiliano I” e, sempre dedicato al medesimo imperatore “Il grande carro trionfale dell’imperatore Massimiliano I”, due opere eccessive, esageratamente elaborate ma non inutilmente: è evidente che quel che si vuole sottolineare è la regalità, il senso del potere e delle qualità che a questo si confanno (perchè credo sia al contempo elogio e esortazione o comunque manifestazione di quel che i dotti dell’epoca si aspettavano dal sovrano).
Una straordinaria “Nemesis”, donna di non proprio rara bellezza, sembra governare il mondo ma ero già attratto dallo splendido “Il granchio marino” e della bellissima “Anatra morta”.
Veniamo ai ritratti, quello del religioso è bellissimo, ma che dire del “San Girolamo nello studio” o del “Ritratto di Erasmo da Rotterdam” o quello di Filippo Melantone? Non voglio ripetermi in elogi quindi passo subito a due cicli di opere a bulino: “L’Apocalisse” e “La Passione” che documentano in modo molto fedele ai testi il libro di Giovanni e le ultime ore di Gesù.
Cattolico o protestante? guardando le varie opere di Albrecht Dürer non credo sia facile trarre una conclusione definitiva; potrebbe essere vero che l’artista avesse a cuore la sopravvivenza delle sue opere, ben consapevole del valore di una produzione ritenuta eccelsa già ai suoi tempi, e che pertanto abbia scelto soggetti che gli permettessero di mantenersi in un ambito di ambiguità tale da garantirgli una “via di fuga”.
Atteggiamento più che comprensibile quindi nessun biasimo se da questo si fosse fatto guidare.
Vengo a “Melencolia I”, un esemplare della quale è custodito anche presso la fondazione Magnani Rocca a Mamiano di Traversetolo: la Melanconia, bile nera, era una delle peggiori condizioni dell’animo umano, nel saggio medioevo associata alla sera, all’autunno e alla maturità dell’uomo e poteva condurre ad una tristezza eccessiva ed alla pazzia; l’umanesimo cambiò l’approccio e iniziò quel percorso di riabilitazione che la trasformò nella caratteristica di coloro che si dedicavano alla filosofia, alle arti e alla poesia.
I neo platonici fiorentini legarono questo stato al furor divinus di origine platonica cosicché il furor melancholicus divenne gradualmente attributo del genio e tale idea ebbe gran fortuna se ancora nell’Ottocento i decadenti parlavano di “spleen” che in greco antico come in inglese significa milza, organo che avrebbe prodotto la bile nera.
Ora questa figura ben rappresenta la chiusura al mondo cioè è ostile, di principio, al regime dell’appuntamento, al lavoro di istituzione di rapporti con possibilità di soddisfazione: che da difetto sia divenuto motivo di distinzione la dice lunga sull’evoluzione dei tempi.
Lascio per ultimo un’opera curiosa, “Ercole al bivio”, che rappresenta un uomo nudo, di spalle, decisamente nerboruto, con un bastone tra le mani in un atteggiamento che sembra di difesa di una donna nuda appartata con un satiro aggredita da un’altra donna, vestita, mentre un puttino fugge spaventato.
L’episodio è significativamente differente da quello raccontato da Prodico di Ceo, riportato da Senofonte, in cui Ercole resiste alle tentazioni della Depravazione in favore della virtù, un testo da leggere e facile da reperire.
Personalmente non mi ritrovo nel considerare l’opera di Dürer come un bivio tra bene e male, ma non proseguo oltre, vista la mia ignoranza.
A mio giudizio, questa milanese, è una mostra da non perdere.
Parma, 18 giugno 2018 memoria di san Gregorio Giovanni Barbarigo Vescovo