Turno serale, riceviamo richiesta di intervento per incidente stradale, con feriti, arriviamo sul posto e procediamo ai rilievi, come di prammatica.
Durante le operazioni succede che dobbiamo chiudere la strada, una decina di minuti al massimo: c’è olio sparso sulla carreggiata, un carro attrezzi che sta lavorando per recuperare una delle auto coinvolte, un altro a bordo strada con la seconda auto e mentre su Guastalla scendevano le prime ombre della sera, come avrebbe detto il mitico Nick Carter, tre operatori devono procedere a misurazioni, verifiche e a garantire l’altrui, e perchè no, anche la propria incolumità.
Una strada, peraltro, dove le velocità non sono esattamente da rispetto dei limiti e ci troviamo in un posto dove, poco tempo addietro, c’è già stato un incidente con esito infausto o, a dirla più chiaramente, c’è scappato il morto.
Il giorno, sabato, l’orario, dopo le 20.00, sono da momento non dedicato agli spostamenti per lavoro.
Dopo alcuni minuti di attesa cominciano ad arrivare, a piedi, alcune persone, in maggioranza maschi e abbastanza giovani, massimo sui 30/35 anni, che chiedono di poter passare; ottengono risposta negativa perchè, in quel momento, stiamo lavorando per i rilievi, la rimozione dei mezzi e la messa in sicurezza.
A me sembra banale, a fronte di gente che lavora, lasciarli fare anche perchè meno disturbo si crea e prima finiscono il loro lavoro, ma evidentemente questa logica non è così diffusa e condivisa.
C’è gente che pretende di saperne sempre più degli altri, che sa come si lavora in sicurezza su una strada dove le auto sfrecciano ad alta velocità e col buio, ma non gli basta saperlo, deve comunicarlo anche agli altri, così si permette di venire a importunare dando preziosi consigli.
Un tizio si è rivolto alla collega chiedendole di far abbassare i lampeggianti del carro attrezzi perchè gli davano fastidio; ricevuta risposta negativa, evidentemente insoddisfatto, è andato dall’operatore del carro a ripetergli la richiesta.
Un altro, che pretendeva facessimo un senso unico alternato, a fronte della mia spiegazione negativa, mi ha risposto: “fate intervenire un’altra pattuglia”; gli ho spiegato che non avevamo altre pattuglie disponibili ma la notizia non ha scalfito le sue convizioni: “non è un problema mio”.
Questi banalissimi episodi, ne accadono migliaia ogni giorno, e di ben più gravi, li utilizzo per sostenere una tesi semplice semplice: gli italiani sono un popolo che ha una percentuale di disagiati altissima.
Disagiati perchè di fronte all’autorità, in uno stato in cui i cittadini sono tali, prevale su tutto il rispetto e la collaborazione. Dove, invece, lo stato è debole (stavo scrivendo impotente) subito prende quota la maleducazione, che in sé non fa male a nessuno, ma è indice di ben altro: della pretesa e dunque della prepotenza.
La prepotenza, lo sostengo ormai da anni, è la faccia dura dell’impotenza, è una larva dietro la quale si cela l’incapacità di percepire l’altro come possibile partner.
Nella prepotenza l’altro è un ostacolo di fronte al mio bisogno immediato e quindi va, per quanto possibile eliminato o soggiogato.
L’altro non è che un ostacolo; i tanti passaggi all’atto, definiti improvvidamente raptus, non sono altro che la manifestazione di questa incapacità.
Incapacità che si riverbera anche verso le istituzioni, sempre più soggette ad ogni forma di intemperanza, pretesa, ricatto perchè venendo a mancare il pensiero di una iniziativa libera, restano solo i simulacri del diritto, quest’ultimo diviene l’unico e ultimo orizzonte: il diritto statale viene fagocitato dal diritto individuale ed utilizzato, snaturato, nelle forme persecutorie della querulomania, guerra civile in servizio permanente effettivo.
Parma, 23 agosto 2018 memoria di Santa Rosa da Lima Vergine