Mi sveglio il giorno di Pasqua, finalmente con un po’ di sole e con l’ora legale (un modo intelligente per usufruire di maggiore luce, il che mi aggrada particolarmente).
Non è una gran giornata: tutta all’insegna della malattia e della morte imminente, con tanto di disposizioni testamentarie.
Colgo un aspetto ironico nella volontà di lasciare i ricordi: beni che sono stati da sempre sottratti al godimento quotidiano, per essere custoditi a parte, ora diventano i ricordi da lasciare agli eredi; quello che è stato un ostacolo fino ad oggi (divieto di utilizzo) ora diventa la reliquia che dovrebbe garantire un ricordo.
Non passa per la testa l’idea di un ricordo di tipo diverso, nè di un possibile modo di rapportarsi; non lo pretendo nè mi aspetto che accada: non ci sarà resurrezione oggi in questa casa, tutto permane nell’opprimente ordine della paura della morte (il primo ricordo in tal senso risale agli 8 anni all’incirca), che è, lo si vede bene, angoscia di vita, non di morte.
Lo sto scoprendo con notevole ritardo ma mai come oggi mi si affaccia in tutta la sua drammaticità: non è la morte ad angosciare, ma la vita: ciò che è stato ignorato torna prepotentemente a pretendere udienza, facendola pagare e con che interessi.
Mi tornano in mente gli scritti di Ibsen e l’urlo di Munch.
Eppure è Pasqua di Risurrezione, un’occasione da non lasciar cadere nella banalità della festa culinaria e nella scontatezza di auguri insignificanti.