Da tempo sono inquieto in merito a due questioni: il razzismo e la religione.
Quanto al primo, il libro di George L. Mosse che ho letto, dedicato alla storia del razzismo in Europa, mi è stato di grandissima utilità, per il secondo sono andato a cercare in un autore che ha ben chiaro in cosa consista la religione.
Vediamo se l’ho compreso anch’io; il testo di riferimento è il famosissimo “L’uomo Mosè e il monoteismo”, l’autore, come tutti sanno, Sigmund Freud.
Cosa ci dice Freud, mentre traccia la storia di Mosè e del monoteismo, nato in Egitto col faraone eretico Amenofi IV che prenderà il nome di Ekhnatòn (e marito di quella faraona fantastica che è stata Nefertiti, il cui busto a Berlino ricordo come una delle cose più meravigliose io abbia visto)?
Ci racconta che la prima forma di religione fu il totemismo, ecco come ne spiega l’origine:
in tempi primitivi l’uomo primigenio viveva in piccole orde, ciascuna dominata da un maschio robusto.
Il maschio robusto era signore e padrone di tutta l’orda, senza limiti al suo potere, che esercitava con violenza. Tutte le femmine erano sua proprietà, sia le donne e le figlie della sua orda, sia forse quelle rapite ad altre orde. Il destino dei figli era crudele; quando essi suscitavano la gelosia del padre, venivano trucidati o evirati o espulsi. Trovavano scampo vivendo insieme in piccole comunità, procurandosi le donne mediante il ratto e, quando uno di loro ci riusciva, cercando di raggiungere una posizione simile a quella del padre nell’orda originaria. Per ragioni naturali, i figli più piccoli si trovavano in una situazione eccezionale: protetti dall’amore della madre, traevano vantaggio dall’età del padre e potevano succedergli dopo la sua scomparsa.
I fratelli scacciati e viventi in comunità unirono le loro forze per sopraffare il padre e, secondo il costume di quei tempi, lo divorarono crudo: il cannibalismo era un tentativo per assicurarsi l’identificazione con lui incorporando un pezzo di lui, ad un tempo odiato ed amato padre, modello temuto e venerato cui si aspirava a prendere il posto.
Una tale situazione ha comportato un lungo periodo di dispute, in cui ogni fratello ambiva all’eredità paterna, volendola tutta per sé, ma queste lotte creavano troppa instabilità e pericolo per poter durare ed allora i fratelli, memori dell’atto liberatorio compiuto in comune e dei legami emotivi reciproci che erano nati ai tempi della cacciata, contrassero un’unione tra loro, stipularono una sorta di contratto sociale.
Nacque così la prima forma di organizzazione sociale, con la rinuncia pulsionale, il riconoscimento di obbligazioni reciproche, la fondazione di determinate istituzioni dichiarate inviolabili (sacre), dunque gli inizi della morale e del diritto. Il singolo rinunciò all’ideale di acquisire per sé la posizione del padre, rinunciò al possesso della madre e delle sorelle. Di qui il tabù dell’incesto e l’imposizione dell’esogamia. Una buona parte del potere assoluto reso disponibile dalla soppressione del padre passò alle donne, venne il tempo del matriarcato. In questo periodo di “alleanza fraterna”, la memoria del padre sopravvisse. Si trovò come sostituto un animale robusto, che forse all’inizio era sempre anche temuto.
Da un lato il totem valeva come progenitore carnale e genio tutelare del clan, doveva essere venerato e protetto; dall’altro fu istituita una solennità in cui gli era riservato il destino toccato al padre primigenio. Esso veniva ucciso e consumato da tutti i membri della tribù, insieme, in quello che è stato definito pasto totemico.
Fu dunque il totemismo la prima forma di religione nelle forme della venerazione di un sostituto paterno, dell’ambivalenza mostrata nel pasto totemico, dell’istituzione di celebrazioni commemorative, di divieti la cui trasgressione era punita con la morte.
La religione sembra nascere dall’omicidio del padre e dalla sua incorporazione attraverso il pasto totemico.
Il totemismo comprende come indispensabili elementi del sistema un certo numero di imperativi e divieti, il cui unico significato, naturalmente, è quello di rinunce pulsionali, cioè la rinuncia alle madri e alle sorelle nell’orda, pur passionalmente desiderate, la concessione di pari diritti a tutti i membri dell’alleanza dei fratelli, cioè la limitazione della tendenza alla rivalità violenta tra di loro. In queste disposizioni s’intravedono i primi inizi dell’ordine morale e sociale. Non ci sfugge che qui valgono due motivazioni diverse. I primi due divieti si conformano al padre di cui ci si è sbarazzati: ne continuano in certo modo il volere. Il terzo imperativo, quello della parità di diritti dei fratelli alleati, prescinde dal volere del padre; trova la sua giustificazione richiamandosi alla necessità di mantenere durevolmente il nuovo ordine sorto dopo la fine del padre.
Col totemismo il padre diviene nuovamente il capo della famiglia, un capo ben lungi dall’essere così assoluto com’era stato il padre dell’orda primitiva. Il totem animale cede il posto al dio con passaggi ancora ben perspicui. Dapprima il dio di forma umana ha ancora la testa dell’animale, dopo si trasforma quasi sempre in quel determinato animale, poscia questo animale diviene sacro al dio e suo accompagnatore prediletto, oppure il dio uccide l’animale e ne assume l’appellativo. Tra il totem animale e il dio sorge l’eroe, spesso come primo grado alla deificazione. L’idea della divinità suprema compare prestissimo, così sembra, dapprima soltanto simile a un’ombra, senza immischiarsi negli interessi quotidiani degli uomini. Col confluire di tribù e popoli in unità più vaste, anche gli dei si organizzano in famiglie, in gerarchie. Uno di loro è sovente elevato a signore supremo al di sopra di dei e uomini. Con titubanza, avviene il passo successivo di tributare onori a un solo dio, e infine segue la decisione di accordare tutto il potere a un dio unico e di non tollerare altro dio accanto a lui. Solo così la maestà del padre dell’orda primitiva fu ristabilita e le emozioni suscitate da lui poterono ripetersi.
Con Mosè cosa accade?
L’Egitto della XVIII dinastia è divenuto un impero mondiale; quando sale al trono Amenofi IV che prenderà il nome di Ekhnatòn, ascende con lui l’idea di un dio universale Atòn, che non ha più confini di popoli o paesi, è un dio universale; siamo di fronte al primo caso, e forse il più puro, di religione monoteistica nella storia dell’umanità ma il seme del monoteismo non germogliò in Egitto.
Accanto al faraone c’è un uomo il cui nome, comune per quei tempi, è Tutmosi, un alto funzionario, anch’egli devoto di Atòn, ma, all’opposto del re sognatore, energico e appassionato.
La fine di Ekhnatòn e l’abolizione della sua religione significavano la fine di ogni speranza; il suo destino era di proscritto o rinnegato; ma quest’uomo è un governatore di frontiera e lì trova una tribù semitica immigrata da tempo.
Nella stretta della delusione e della solitudine, si rivolse a questi stranieri, cercò in loro un risarcimento per quanto aveva perduto, li scelse come suo popolo, tentò di realizzare in loro il suo ideale.
Lasciato l’Egitto questo condottiero consacra questa tribù col segno della circoncisione, dà loro leggi, li introduce alle dottrine di quella religione di Atòn che gli Egizi avevano appena respinto; potrebbe darsi che i precetti di quest’uomo siano ancor più rigidi di quelli del faraone e che egli non utilizzi più nemmeno la protezione del dio solare di On, della quale Ekhnatòn si era ancora giovato.
Questi seguaci, gli ebrei, erano caparbi e recalcitranti ai voleri del loro legislatore così un giorno gli si ribellarono, lo ammazzarono, non facendo altro che ripetere un misfatto che in epoche remote era assurto a legge contro il re divino e che risaliva a un modello ancora più antico.
Con l’uccisione di Mosè, il loro grande uomo, gli ebrei respinsero, come già gli Egizi, la religione di Atòn loro imposta.
Il grande uomo, dice Freud, opera sul suo prossimo per due vie: con la sua personalità e con l’idea per la quale egli si impegna.
Questa idea può mettere in rilievo un’antica configurazione di desiderio delle masse o indicare loro una nuova meta di desiderio o in qualche altra maniera attirare la massa in sua balìa. Talora – e questo è certo il caso originario – la personalità è efficace da sola e l’idea ha un ruolo del tutto esiguo. Il perché il grande uomo acquisti importanza, non c’è oscuro neanche per un istante. Sappiamo che nella massa degli uomini vi è grande bisogno di un’autorità da ammirare, a cui inchinarsi, da cui essere dominati, fors’anche maltrattati. Dalla psicologia dell’individuo abbiamo appreso donde proviene questo bisogno della massa. È la nostalgia del padre insita in ognuno dall’infanzia, dello stesso padre che l’eroe della leggenda si vanta di aver vinto. E ora cominciamo a vederci chiaro: tutte le qualità di cui dotiamo il grande uomo sono caratteristiche paterne, e in questa concordanza consiste l’essenza del grande uomo da noi vanamente cercata. La risolutezza dei pensieri, la forza di volontà, l’impeto dell’azione appartengono all’immagine paterna, ma più di tutto l’autonomia e l’indipendenza del grande uomo, la sua divina noncuranza che può crescere fino alla mancanza di qualsiasi riguardo. Lo si deve ammirare, è consentita la fiducia in lui, ma non si può fare a meno anche di temerlo. Avremmo dovuto lasciarci guidare letteralmente dalla parola: chi altri se non il padre può essere stato l’“uomo grande” nell’infanzia!
Senza dubbio fu un possente modello paterno, che nella persona di Mosè si chinò verso i poveri servi ebrei per assicurar loro che erano i suoi figli beneamati. E non meno travolgente dovette essere l’effetto esercitato sugli Ebrei dalla rappresentazione di un Dio unico, eterno, onnipotente, il quale non disdegnava di contrarre con loro, così umili, un patto, e che prometteva di aver cura di loro se rimanevano fedeli al suo culto. Non fu probabilmente facile per loro distinguere l’immagine dell’uomo Mosè da quella del suo Dio, e non si sbagliavano in ciò, giacché è possibile che Mosè avesse introdotto certi aspetti della sua persona nel carattere del suo Dio, come l’irascibilità e l’inesorabilità.
Comunque Mosè venne ucciso ed allora gli ebrei si unirono ad altre tribù loro affini nel territorio fra la Palestina, la penisola del Sìnai e l’Arabia e qui, in una località detta Qadesh assunsero sotto l’influsso degli arabi Madianiti una nuova religione, l’adorazione del dio vulcanico Yahweh. Subito dopo furono pronti a irrompere in Canaan come conquistatori.
A Qadesh si ebbe un compromesso, ancora chiaramente percepibile come tale, nacque una nuova religione: una parte intendeva rinnegare la novità e l’estraneità del dio Yahweh e rinvigorire la sua pretesa di essere venerato dal popolo, l’altra parte, invece, voleva conservare il ricordo della liberazione dall’Egitto e la grandiosa figura del capo, Mosè, rimuovendo però la fine che aveva fatto.
Questa parte riuscì effettivamente a salvare la memoria di quel fatto e dell’uomo che li aveva guidati, mantenne anche il segno esteriore della religione mosaica, la circoncisione, e forse fece adottare alcune restrizioni nell’uso del nome del nuovo dio. Le due parti avevano lo stesso interesse a disconoscere che vi era stata presso di loro una precedente religione e quale ne era stato il contenuto; si concluse così quel primo compromesso che verosimilmente ben presto trovò una sanzione scritta.
Yahweh era probabilmente simile a tutti gli dei delle tribù circostanti, non aveva certo alcuna somiglianza col dio mosaico; Atòn era stato pacifista come il suo rappresentante in terra, o meglio il suo modello; al contrario Yahweh era in guerra con gli dei vicini, come lo erano le rispettive tribù ma a nessun suo adoratore sarebbe venuto in mente di negare l’esistenza degli dèi di Canaan, Moab o Amalek: l’idea monoteistica, che era balenata con Ekhnatòn, si era nuovamente oscurata e doveva restare nell’ombra ancora per molto tempo.
Questo dio Yahweh, però, nel corso dei tempi perse i caratteri che gli erano propri e acquistò una sempre maggiore somiglianza con l’antico dio di Mosè, Atòn.
Secoli di sforzi e infine due grandi riforme, l’una prima e l’altra dopo l’esilio babilonese, compirono la trasformazione del dio popolare Yahweh nel Dio che Mosè aveva imposto agli Ebrei di adorare.
La religione portò agli Ebrei anche una rappresentazione molto più grandiosa di Dio o, per dirla meno gonfiamente, la rappresentazione di un Dio più grandioso. Chi credeva in questo Dio partecipava in certo qual modo della sua grandezza, poteva sentirsi innalzato.
Tuttavia non fu facile per il popolo conciliare la credenza di essere privilegiato dal suo dio onnipotente con le tristi esperienze del suo infelice destino, ma non per questo rinunciò, com’era consueto, al suo dio e per soffocare i dubbi su di lui accrebbe il suo senso di colpa e forse da ultimo fece ricorso agli “imperscrutabili decreti di Dio”, come i devoti fanno ancor oggi.
Questo dio recuperato aveva tre punti in comune con quello mosaico: il primo è che fu riconosciuto come l’unico dio, accanto al quale un altro dio era impensabile.
In Egitto probabilmente il monoteismo era sorto come effetto secondario dell’imperialismo, Dio era il riflesso del faraone, signore assoluto di un grande impero mondiale; di certo analoga situazione non era possibile in Israele per cui occorre chiedersi come mai una piccola e impotente nazione osò concepirsi come la figlia preferita ed eletta del grande Signore.
Gli altri due punti furono il rifiuto del cerimoniale magicamente operante e l’accento sull’esigenza etica, avanzata in nome del dio, ma tra i precetti della religione mosaica se ne trova uno che è più importante di quanto non si riconosca a prima vista: è il divieto di fare immagini di Dio, l’imposizione di adorare un Dio che nessuno può vedere.
Ma quando questo divieto fu accettato, dovette esercitare un effetto profondo. Esso significa infatti posporre la percezione sensoria alla rappresentazione cosiddetta astratta, un trionfo della spiritualità sulla sensibilità, in termini rigorosi una rinuncia pulsionale con le necessarie conseguenze psicologiche.
L’uomo si trovò condizionato a riconoscere in generale potenze “spirituali”, tali cioè da non poter esser colte con i sensi, specialmente con la vista, ma che manifestano effetti indubbi, anzi fortissimi. Se dovessimo affidarci alla testimonianza della lingua, fu l’aria in movimento a fornire il modello della spiritualità, poiché lo spirito prende il suo nome dal soffio di vento (animus, spiritus; in ebraico ruah, soffio).
Tutti questi progressi nella spiritualità hanno la conseguenza di aumentare la presunzione della persona, di renderla orgogliosa, questa si sente superiore a coloro che sono rimasti in balìa della sensibilità. Sappiamo che Mosè trasmise agli Ebrei il sentimento esaltante di essere il popolo eletto; togliendo a Dio ogni materialità, il segreto tesoro del popolo si arricchì di una nuova gemma preziosa. La propensione degli Ebrei per gli interessi spirituali non s’interruppe, e dalle sventure politiche della loro nazione impararono ad apprezzare nel suo valore l’unica proprietà loro rimasta, la loro letteratura.
Il primato accordato per circa duemila anni nella vita del popolo ebraico alle preoccupazioni spirituali ha prodotto naturalmente il suo effetto; esso ha contribuito a contenere la rozzezza e l’inclinazione alla violenza che di solito compaiono dove l’ideale popolare è lo sviluppo della forza muscolare.
L’armonia nel coltivare l’attività dello spirito e quella del corpo, così come fu realizzata dal popolo greco, rimase inattingibile agli Ebrei. Nella spaccatura, finirono per decidere per il valore più alto.
Ma torniamo al rapporto col padre: l’ambivalenza è intrinseca al rapporto paterno; non poteva non ridestarsi, nel corso dei tempi, anche quell’ostilità che una volta aveva spinto i figli a uccidere il padre ammirato e temuto. Nella cornice della religione mosaica non c’era spazio per l’espressione diretta dell’odio omicida contro il padre; poteva venire in luce solo una poderosa reazione a quest’odio: il senso di colpa per questa ostilità, la cattiva coscienza di aver peccato contro Dio e di non cessare di peccare.
Questo senso di colpa, che fu ininterrottamente tenuto desto dai Profeti, e che presto formò un contenuto integrante del sistema religioso, aveva anche un’altra e superficiale motivazione, la quale mascherava abilmente la sua vera origine. Le cose andavano male per il popolo, le speranze riposte nel favore di Dio non volevano adempiersi, non era facile conservare l’illusione, cara più di ogni altra, di essere il popolo eletto di Dio. Dal momento che nessuno voleva rinunciare a questa fortuna, il sentimento di colpa per la propria peccaminosità offriva una giustificazione opportuna di Dio. Nessuno meritava di meglio che essere punito da lui, perché nessuno rispettava i suoi comandamenti, e nel bisogno di soddisfare questo sentimento di colpa, che era insaziabile e proveniva da fonti ben più profonde, questi comandamenti dovevano essere resi sempre più severi, penosi e anche meschini. In una nuova ebbrezza di ascesi morale il popolo s’impose sempre nuove rinunce pulsionali, raggiungendo, almeno nella dottrina e nel precetto, vertici etici che erano rimasti inaccessibili agli altri popoli antichi.
Questa etica non riesce tuttavia a disconoscere la sua origine dal senso di colpa causato dall’ostilità repressa verso Dio e s’indovina anche che essa serve a intenzioni segrete di punizione.
Paolo, un ebreo romano di Tarso, ricuperò questo senso di colpa e lo ricondusse correttamente alle sue prime fonti storiche.
Chiamò queste il “peccato originale”; si trattava di un delitto contro Dio, che solo con la morte poteva essere espiato. Con il peccato originale la morte venne nel mondo. In effetto questo delitto meritevole di morte era stato l’uccisione del padre primigenio, successivamente deificato. Ma non si ricordava l’assassinio, invece si fantasticava la sua espiazione, e perciò questo fantasma poteva essere salutato come messaggio di redenzione (vangelo). Un figlio di Dio si era fatto uccidere innocente e così facendo aveva preso su di sé la colpa di tutti. Doveva trattarsi di un figlio, poiché era stata l’uccisione del padre.
Il fatto che il redentore si fosse sacrificato senza colpa era una deformazione palesemente tendenziosa, che offriva difficoltà all’intelligenza logica: come può infatti, chi è innocente dell’assassinio, prendere su di sé la colpa degli assassini consentendo di essere ucciso? Nella realtà storica tale contraddizione non si dava. Il “redentore” non poteva essere altri che il primo colpevole, il caporione della banda dei fratelli che avevano sopraffatto il padre
Se non vi fu tal condottiero, Cristo è l’erede di una fantasia di desiderio rimasta inappagata; se vi fu, Cristo ne è allora il successore e la reincarnazione. Comunque sia, fantasia o ritorno di una realtà dimenticata, in questo punto va ritrovata l’origine della rappresentazione dell’eroe, dell’eroe che sempre si ribella al padre e in qualche forma lo uccide. Qui sta anche il vero fondamento della “colpa tragica” dell’eroe nel dramma, altrimenti difficilmente dimostrabile. Ci sono pochi dubbi che l’eroe e il coro della tragedia greca raffigurano questo stesso eroe ribelle e la banda dei fratelli, e non è senza significato che nel Medioevo il teatro riprende a vivere con la rappresentazione della storia della Passione.
Quel che doveva riconciliare col Dio Padre, finì col detronizzarlo e sopprimerlo: il giudaismo era stato una religione del Padre, il cristianesimo diventò una religione del Figlio. L’antico Padre divino si ritirò dietro a Cristo, e al suo posto venne Cristo, il Figlio, proprio come ogni figlio aveva sperato in era remota.
Paolo, il continuatore del giudaismo, fu anche il suo distruttore. Il suo successo fu in primo luogo dovuto al fatto che mediante l’idea della redenzione egli scongiurò il senso di colpa dell’umanità, ma oltre a ciò anche alla circostanza che egli rinunciò a credere che il suo popolo fosse l’eletto e dovesse recarne il segno visibile, la circoncisione, così che la nuova religione poté diventare universale e abbracciare tutti gli uomini. Può darsi che in questo passo di Paolo c’entrasse il suo personale desiderio di vendetta per il rifiuto che la sua riforma aveva incontrato nei circoli ebraici, ma in ogni caso veniva così ristabilito un carattere dell’antica religione di Atòn, levata una strettoia che essa aveva acquisito nel passaggio a un nuovo portatore, il popolo ebraico.
Per alcuni aspetti la nuova religione significò un regresso di civiltà rispetto a quella più antica, l’ebraica, come sempre succede con l’irruzione o l’ammissione di nuove masse umane di livello inferiore; soprattutto non escluse, come invece la religione di Atòn e quella mosaica che venne subito dopo, la penetrazione di elementi superstiziosi, magici e mistici, destinati a essere di grave intralcio per l’evoluzione spirituale dei due millenni successivi.
Perché mai l’idea monoteistica fece un’impressione così profonda proprio sul popolo ebraico e fu da esso così tenacemente conservata?
Il destino aveva posto il popolo ebraico a contatto con la grande impresa e misfatto dei tempi primordiali, l’uccisione del padre, allorché l’aveva indotto a ripeterlo nella persona di Mosè, un’eminente figura paterna. Era un caso del “mettere in atto”, invece di ricordare, come così spesso avviene col nevrotico durante il lavoro analitico.
All’incitamento a ricordare, che la dottrina di Mosè dava loro, essi reagirono invece rinnegando il loro atto, si attestarono sul riconoscimento del grande Padre e si sbarrarono la possibilità di accedere là donde più tardi Paolo doveva riprendere la continuazione della storia primordiale. Non è affatto indifferente o casuale che l’uccisione violenta di un altro grande uomo diventasse anche il punto di partenza della neocreazione religiosa di Paolo. Si trattava di un uomo che un piccolo numero di seguaci in Giudea riteneva il figlio di Dio e l’annunciato Messia, al quale poi fu anche attribuito qualcosa della storia infantile inventata a proposito di Mosè.
Se Mosè fu questo primo Messia, allora Cristo divenne il suo sostituto e successore, allora anche Paolo poté con una certa giustificazione storica proclamare ai popoli: “Vedete, il Messia è davvero venuto, ed è stato ucciso sotto i vostri occhi.” Allora, anche nella risurrezione di Cristo c’è un pezzo di verità storica, poiché egli era il Mosè risorto e, dietro a Mosè, il padre dell’orda primitiva, che tornava trasfigurato e si metteva, come figlio, al posto del padre.
Scaturito da una religione del padre, il cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità di doversi sbarazzare del padre.
Questo è Freud, indegnamente sintetizzato dal sottoscritto.
Ora si tratta di mettere meglio in luce la religione.