Emilio Gentile e la modernità

Torno a parlare del volume di Emilio Gentile, L’apocalisse della modernità, testo che consiglio caldamente per svariati motivi.

Parto da una citazione di Gustave le Bon, antropologo, psicologo, sociologo francese, fondatore della psicologia delle masse: “i nuovi dogmi che stanno per nascere non potranno impiantarsi se non a condizione di non accettare discussioni d’alcun genere e di essere altrettanto intolleranti quanto quelli che li hanno preceduti”.

Riprendo dal contrasto tra pessimismo ed ottimismo a cavallo dei due secoli della modernità trionfante; Gentile riporta l’evoluzione di un pensiero catastrofista che, partendo dal Settecento e dalla scoperta – riscoperta delle rovine dei grandi imperi del passato, applica anche alla civiltà europea l’idea di apogeo e successiva decadenza. Pensiero cullato dal movimento romantico che sostiene l’idea della decadenza.

In realtà la società industriale stava partorendo “civiltà e barbarie, prosperità e miseria, libertà e servitù” come nota acutamente Tocqueville.

Pessimismo storico e ottimismo catastrofico procedono uniti nella dissoluzione dei principi elaborati a partire dall’illuminismo ovvero “l’idea della civiltà come progresso irreversibile di emancipazione dell’umanità dalla barbarie primitiva verso la creazione di un uomo nuovo e di una nuova società, regolate dall’armonia dei diritti naturali, dalla ragione, dalla tolleranza, dal commercio e dell’industria produttori di ricchezza e di benessere”.

Il pessimismo storico scivolerà verso le idee razziste della purezza della razza, da tutelare da ogni contaminazione che comporterebbe inevitabilmente la degenerazione ed il decadimento; l’archetipo dell’apocalisse come catastrofe finale senza redenzione si forma in questo periodo.

Ma l’apocalisse, secondo il modello biblico vede la catastrofe come propedeutica alla rigenerazione: dopo le macerie della distruzione si ha la ricostruzione del regno di Dio e di una nuova umanità, l’uomo nuovo, oggetto delle speculazioni di tanti movimenti rivoluzionari di destra e sinistra, “socialisti e nazionalisti”, dai comunisti a Wagner.

 L’idea della guerra, come strumento di purificazione  e di rinnovamento si fa strada negli intellettuali, tra i quali un maestro di Nietzsche,  Jacob Burckhardt che “Sembrava escludere qualsiasi esaltazione della guerra come evento rigeneratore, ma, nello stesso tempo, metteva in dubbio anche l’azione benefica di una pace prolungata: una lunga pace, affermò, non produce soltanto snervamento, ma consente il sorgere di una gran massa di esistenze stentate, miserabili e paurose, che senza di essa non sorgerebbero, e che si aggrappano poi all’esistenza con alte strida sul loro diritto, sottraendo spazio alle autentiche energie e ispessendo l’aria, e tutto sommato degradando anche il sangue della nazione. La guerra, invece, riporta in onore le energie autentiche. E quelle esistenze stentate le mette, forse, almeno a tacere”.

Continuava, non contento, affermando che la guerra “subordinando ogni vita e proprietà a un solo momentaneo fine, ha un’enorme superiorità morale nei confronti del mero egoismo violento del singolo perché sviluppa e disciplina le energie individuali ponendole al servizio di un universale, e precisamente al più elevato universale, facendo così scaturire la più nobile virtù eroica; anzi, essa sola consente all’uomo la grandiosa visione di una subordinazione complessiva a un universale. La guerra, infine, giovava alla pace, perché soltanto un’effettiva potenza può garantire pace e sicurezza durature e poiché la guerra collauda questa effettiva potenza, proprio in una guerra risiede la pace futura”.

Il terreno era dissodato a dovere ed i semi della guerra franco prussiana, “mirabile” esempio di tecnica, strategia ed efficienza organizzativa, erano pronti ad attecchire per produrre i mortiferi frutti che verranno; questa guerra, infatti, seppellisce definitivamente (anche se i generali lo capiranno assai tardi) il modo di combattere romantico, napoleonico in favore di tecnologia, efficienza, studio scientifico ed organizzazione.

Sostiene Gentile che dopo lo scontro del 1870 Francia e Germania iniziano a concepirsi come due mondi alternativi: “Dopo il 1870, in effetti, Francia e Germania cominciarono a essere percepite come due civiltà contrapposte e antagoniste. Civiltà francese e civiltà tedesca: l’una figlia della rivoluzione francese, della concezione della nazione fondata sul libero e volontario consenso dei cittadini, vincolata alla salvaguardia della libertà e dei diritti dell’individuo; l’altra cresciuta con il militarismo autoritario, l’affermazione del primato della nazione e dello Stato potenza, come organismi che si integrano reciprocamente avendo le loro solide fondamenta nella forza permanente e immutabile della razza, entro la quale si svolgeva la vita effimera dei singoli individui come cellule di un grande corpo sociale, che aveva una sua coscienza e una sua volontà superiore, si imponeva agli individui attraverso la disciplina del dovere etico, si incarnava nella figura dell’imperatore e dell’aristocrazia militare.”

Nasce l’ideale dell’uomo marziale: egli si prende la rivincita sull’ideale di uomo marziale napoleonico che era “il cittadino dedito alla nazione in ogni momento della sua esistenza, educato a superare il proprio individualismo nel senso collettivo del bene comune, esercitato nel corpo e ancor più nel carattere a esser pronto a combattere e a morire per la patria. Era, in altre parole, l’uomo rigenerato dalla virtù civica del patriottismo, che nella guerra e della morte per la patria realizzava la forma più alta e compiuta di umanità, assurgendo al martirio e alla santità nel Pantheon della nazione”.

Questo ideale di cittadino guerriero,di stampo francese, dopo la batosta del 1870 deve cedere il passo al soldato in uniforme, secondo il metodo organizzativo tedesco, che diventa il nuovo modello di ogni virtù civile, disciplinato, obbediente, alieno da vizi e deviazioni, temprato nel carattere, l’uomo perfetto in una società ove i conflitti tra potenze si stavano proponendo con drammatica successione.

“I maggiori movimenti culturali dell’ottocento, dallo storicismo al positivismo, dal darwinismo sociale all’idealismo e alle varie filosofie della vita, attribuivano una funzione positiva alla guerra nello sviluppo dell’umanità. La guerra era considerata un evento appartenente alla naturale condizione dell’uomo, sempre possibile nella perpetua lotta per l’esistenza, e l’ascensione verso forme migliori di civiltà, sia perché la considerava una necessità biologica, sia per chi la considerava una manifestazione di Dio nella storia o un giudizio divino sul comportamento dei popoli. Il principio dell’eticità della guerra fu collocato al vertice dei valori dello Stato nazionale, insieme con la convinzione che la guerra è il momento supremo e sublime della dedizione dell’individuo a un ideale che trascende il suo particolare fino al sacrificio della vita.”

continua

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.