Sentivo stamane (27 febbraio) alla radio il notizione sulle lacrime negate del comandante Schettino, al vedere il relitto della nave da lui condotta nella disgraziata sventura presso l’isola del Giglio.
Delle vicende processuali non mi interesso: sono garantista (aiuto mi sto riducendo ad un politicamente corretto): fino a che non vi sarà una sentenza Schettino rimane uomo libero ed innocente; se sarà assolto resterà innocente, se verrà condannato dovrà diventare ospite delle patrie galere per il congruo tempo stabilito dai giudici, punto.
Nemmeno mi interessano le polemiche degli abitanti dell’isola che non vogliono sul loro territorio: opportuno o meno, deve essere compiuto un atto giudiziario e che si compia, senza perderci tempo e pensieri (certo che quando la nave passava così vicina all’isola avrebbero potuto scrivergli di non farlo più).
Mi voglio occupare di lacrime e la suggestione è chiara: ho da poco letto di lacrime e sono tentato di ricavarne qualche considerazione.
Dunque sentivo dalla radio e leggo dal sito del Corriere della sera di oggi, che Schettino avrebbe pianto: “Il copione prevedeva infatti un versamento massiccio di lacrime, che al telefono l’ex comandante si affretta a smentire, consapevole del fatto che il troppo stroppia. «Non è vero che ho pianto. Chi mette in giro queste notizie mi vuole far passare per un debole, come è stato in questi due anni. Ma io non sono fatto così. Sto cercando di dimostrare che sono un galantuomo, non uno smidollato»”.
Se avesse pianto il nostro Schettino sarebbe stato da iscrivere nel novero dei deboli, degli smidollati?
Mi viene in mente Gesù che piange su Gerusalemme (in Lc 19. 41-44): “In quel tempo, Gesù, quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”.
Gesù piange pensando all’occasione perduta dal popolo di Israele, che non ha saputo riconoscere l’offerta che era Gesù stesso.
Piange anche davanti alla tomba di Lazzaro, per la morte dell’amico.
In entrambi i casi si potrebbe dare a Gesù dello smidollato: se è davvero Dio Onnipotente (e Onnisciente) che motivo ha di piangere? Non verrebbe da stuzzicarlo, spronarlo dicendogli: “comportati da Dio e risuscita Lazzaro, anzi manco dovevi permettergli di morire, e converti e salva Gerusalemme, che fatica sarai mai per Dio?
Gesù non si è comportato da Dio; se lo avesse fatto sarebbe caduto in una o più delle tentazioni di satana, che in sostanza non erano che questo: comportati da Dio!!!
Non si è comportato nemmeno da eroe: non ha fondato o guidato movimenti di rivolta, non ha fondato partiti politici di liberazione di Israele, non si è scontrato con il Golia romano, nè si è creato una bella immagine da eroe senza macchia e senza paura. No, l’eroe stile greco proprio non gli interessava: non aveva un destino da compiere (anzi da subire), non aveva ideali cui confrontarsi e conformarsi; non temeva nemmeno di sbagliare (Gv 18,23): “Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?»”.
Aperto alla confutazione perchè anche gli errori possono essere fecondi (era Infallibile, ma credo poco interessato anche a questo).
Salto d’un balzo in Grecia, alla philia e all’eros “che costituiscono una sorta di istituzione dallo sfondo tipicamente educativo … Tra i due uomini si stabilisce una relazione educativa, forse l’esito di una iniziazione guerriera, in cui i rapporti sono ben definiti. C’è un amante e c’è un amato … L’amante trasmette all’amato le sue conoscenze, lo educa a modelli di comportamento e lo indirizza a una crescita spirituale. Se c’è un rapporto sessuale (e spesso c’era), l’amante è attivo, l’amato passivo…troveremmo un po’ ovunque, allora, uomini legati da un’amicizia virile che non sostituisce affatto l’eros eterosessuale ma rappresenta una dimensione particolare in cui virtù come il coraggio guerriero, la saggezza, la temperanza, sono il nucleo di uno scambio spirituale profondo”.
La lunga citazione è tratta da “Le lacrime degli eroi” di Matteo Nucci.
Cosa unisce la philia alle lacrime? la trasmissione di ruoli e valori, quali quello dell’eroe. L’eroe può piangere, tutti lo fanno, anche per i più stupidi motivi (vedi le lacrime di quell’essere anaffettivo che sembra essere Diomede). Senza sentirsi sminuito perchè, per dirla alla moderna, non ci resta che piangere.
Il pensiero greco non offre soluzioni, non c’è via d’uscita, soluzione.
L’Adriano della Yourcenar sembra consolarsi nella mistica dei misteri (che ricomprende, ontologicamente, la sensualità più sfrenata) condita di un melanconico scetticismo in fondo perverso nella rassegnazione all’inevitabilità di limiti e inconcludenze.
Gli eroi che Matteo Nucci ci racconta hanno come riferimento degli dei insoddisfatti e perennemente costretti a ripetere quel che non sanno risolvere (impossibile dimenticare le ripetute scappatelle sessuali del compulsivo Giove).
La loro immortalità non sembra desiderabile ma quasi una condanna a un’eterna ripetizione basata sui cicli della natura (Proserpina, Adone); l’Ade è un falso mondo fatto di ombre che rimpiangono la vita, ma senza alcun giudizio sulla stessa.
Le loro lacrime sono ben giustificate dalle “defezioni” all’ordine ferreo ed ideale che li sovrasta: le sconfitte, la morte degli amici, la perdita del prestigio.
Non sono lacrime feconde perchè pur frutto di un giudizio di insoddisfazione, non aprono ad alcun lavoro di correzione; paiono essere manifestazioni umane di un’inconcludenza che tale rimane, non scalfibile, ingiudicabile e sancita, eternizzata nell’Olimpo stesso.
Schettino non è un eroe anche se è tentato di vendersi come tale se è vero che afferma di avere salvato tante vite umane. Le lacrime avrebbero potuto essere segno del riconoscimento di un errore; come Gesù piange su Gerusalemme che ha “sprecato” l’occasione, così Schettino avrebbe potuto piangere, cioè provare dolore per l’occasione che lui stesso ha perduto quella volta.
Quella volta che avvicinandosi all’isola mostrava il suo narcisismo di comandante di una grande nave, che esibiva all’ammirazione (un celodurismo celogrossismo di leghista memoria) e di cui faceva sfoggio con la graziosa ospite straniera, forse per averne qualche gratificazione sessuale. Come il corvo di Esopo, che mostrava le penne del pavone per farsi ammirare.
Guardatemi, contemplatemi, invidiatemi!
Avrebbe potuto versare lacrime non eroiche e che avrebbero potuto aprire a differenti pensieri (o felix culpa…).
Non è da pusillanimi piangere, oggi, a meno che non ci si confronti con un ideale di uomo che non piange mai (una volta la pubblicità diceva “che non deve chiedere mai), una sorta di nuovo eroe, senza macchia e senza paura e pure senza lacrime.
Non siamo migliorati in questo: le teoria dell’eroe, anche se con vesti diverse, continua ad abitare in mezzo agli uomini.