Colleziono sogni; stavolta ne ho un paio, sempre raccontati da un amico che mi autorizza a pubblicarli; il primo:
all’uscita dalla messa un ragazzo, compagno di scuola, mi chiede se farò con lui i compiti nel pomeriggio; mi accompagna a casa sua per mostrarmi dove si trova (ed è in via … 76, al piano terra). Sonopoi a casa mia, stanno facendo lavori stradali; il nonno Ermes mi chiede di firmare una petizione per posizionare un grande tubo, tipo oleodotto; gli spiego che, a mio giudizio, la cosa non sarà possibile per motivi di sicurezza, ma lui insiste nell’iniziativa.
Mi trovo adesso a casa del ragazzo; mi presento ai genitori, dicendo: “sono Luciano, ci chiamiamo per nome vero?”; la moglie mi dice di chiamarla pure “mamma”, al che obietto qualcosa che non ricordo.
Ci mettiamo a studiare ma il ragazzo è molto inquieto, si muove continuamente, quasi fosse autistico. Legge qualcosa ma sbaglia l’accento e io lo correggo, ma poi penso che forse va bene comunque perchè lo ha letto con l’accentazione greca e non alla latina come sono abituato io.
Compare poi il padre; domando quale materia porterà all’esame (di maturità), lui risponde “storia”; “hai verificato se anche quelli prima e dopo di te portano storia?” perchè il rischio è che cambino la materia, com’è accaduto quando ho dato la maturità l’altra volta.
Il ragazzo mi regala delle penne che in realtà sono dei pennarelli.
Compare la sorella che mi dice che per lui serve polso fermo, una persona di carattere; io però evidenzio la necessità di una visita specialistica, ma lei si oppone temendo che la cosa diventi pubblica o conclamata, ripetendo che la persona col giusto polso sono io.”
Il secondo sogno:
“mi trovo in ufficio con due cosidetti amministrativi, ciascuno ha una propria postazione di lavoro; entra in ufficio una collega (con la quale, ed è una delle poche, ho notoriamente pessimi, anzi inesistenti rapporti) che inizia a parlare con i due.
Poco alla volta si appoggia alla parete e si avvicina alla mia postazione; parlando sempre con gli altri comincia a sbirciare, di sottecchi, il mio lavoro; quando me ne accorgo la invito a smettere ed a togliersi da quella posizione, ma lei mi ribatte che non c’è una legge che la obblighi a farlo e che, quindi, non si sposterà.
Chiudo il computer, mi avvicino a lei e le sussurro a voce bassa: “p…a, t…a, b…a (che non sono esattamente complimenti oxfordianamente espressi).
Ora sono a Rimini, con un’amica di nome Daniela; incontriamo un camper dove ci sono dei ragazzi, ad uno di questi chiedo della cooperativa sociale dove Daniela lavorava (o lavorava), ma lui non ne sa nulla.
Daniela ed un ragazzo sono in riva alla spiaggia, lei entra in acqua e lui la segue, ma essendo vestito, inizia a bagnarsi i pantaloni, che, quindi, si sfila. Indossa un paio di boxer di cotone non aderenti, tipo quelli americani. I calzoni galleggiano e lui mi fa cenno di recuperarglieli; hanno una serie di scomparti, qualcosa del genere, che mettono in mostra della frutta, tipo mirtilli, lamponi e frutta simile.
Io ricordo loro che dobbiamo andare al lavoro, Daniela mi conferma, poi aggiungo che dobbiamo andarcene anche a motivo della presenza della collega di cui ho parlato prima, che si trova effettivamente su una sdraio a prendere il sole a poca distanza”.
Una cosa è emersa in questo sogno: la collega, in piedi, ricordava quei proiettili vuoti, che si usano come sorta di paracarri davanti alle caserme; una donna immobile, chiusa in sè stessa; la forma del proiettile rimandava a quella di una supposta, cosicché la collega passava da donna proiettile a donna supposta, con la curiosa ambivalenza che suggerisce il termine supposta.
Altra associazione: parlando dell’emozione dovuta al ricevimento di una mail da una persona molto stimata, la rappresentava con una frase evangelica: “a cosa debbo che il mio signore venga a me?”.
Emerge una parola mancante, quasi subito individuata: madre (la frase in effetti è: a cosa debbo che la madre del mio signore venga a me?”).
Il commento è stato: “mi sono mangiato la madre” che richiama al pasto totemico del padre ad opera dei fratelli parricidi.
Mangiato il padre, i figli, antagonisti tra loro, e con senso di colpa per quanto commesso, si identificano col padre stesso, in un processo senza fine, di patologica ripetizione di un pensiero invidioso.