Coriolano e le diaconesse

La storia: Gneo Marzio Coriolano è un nobile romano, ai tempi della repubblica e delle guerre contro i volsci.

Periodo che vide anche le lotte intestine  tra patrizi e plebei.

Condottiero formidabile, viene condannato all’esilio dall’odio della plebe guidata da neo nati tribuni della plebe.

In esilio Coriolano se ne va presso i volsci di cui diventa condottiero per vendicarsi delle ingiustizie subite da Roma; di vittoria in vittoria arriva fin quasi alle mura della città eterna dove si ferma in virtù delle suppliche di madre e moglie; accusato di tradimento dai volsci, una delle versioni sostiene che sia stato ucciso da una congiura durante il processo.

Una parte degli storici sostiene che sia una figura fantastica creata ad hoc dai romani per giustificare le sconfitte subite dai volsci: solo un romano avrebbe potuto sconfiggere Roma quindi la figura di Coriolano salverebbe l’onore dei romani vinti.

Da qui parte Shakespeare per l’omonima tragedia: il condottiero sconfigge i volsci, ottiene l’appellativo di Coriolano per le sue prodezze in quella città come pure il consolato che si lascia sfuggire, però, per la “rudezza impolitica” con cui tratta la plebe.

Figura a tutto tondo di eroe che si staglia contro la mediocrità della plebe e dei suoi untuosi tribuni.

Coriolano sembra un uomo senza macchia e senza paura, il più puro distillato delle virtù romane.

Figlio di una matrona che ambisce al potere e che, comunque, lo ha allevato inculcandogli tutti i valori che egli esprime con tanta asprezza e immediatezza.

Secondo Livio la madre, presso la quale ha continuato a vivere anche dopo essersi sposato, una volta giunta nell’accampamento volsco così gli si rivolge: «Fa’ che io sappia, prima di ricevere il tuo abbraccio, se io sono venuta da un nemico o da mio figlio, se prigioniera o se madre sono io nel tuo campo».

La donna, ci dice Plutarco, ha chiara la situazione contraddittoria in cui viene a trovarsi il figlio: «L’esito della guerra è incerto; l’unica cosa certa è che, se vincerai, sarai il distruttore della tua patria, mentre se sarai sconfitto tutti penseranno che per spirito di vendetta hai causato le peggiori sventure a uomini che erano i tuoi benefattori e amici» (Cor. XXXV 9); il suo comportamento lo pone in una situazione insostenibile: o traditore della patria o ingrato verso gli ospiti.

La lotta tra madre e figlio così si conclude: «Hai vinto una vittoria fausta per la patria, ma rovinosa per me. Mi ritirerò infatti sconfitto, se pure da te sola» (Cor. XXXVI 5)

La moglie è una figura scialba ed il figlioletto sembra essere allevato per divenire la copia del padre.

Il suo arcinemico, Tullo Aufidio, generale volsco, ne causerà la morte, geloso del suo successo, con l’inganno.

Una figura isolata, titanica, che sembra precorrere certi eroi moderni.

Alcune note, senza pretesa.

Il rapporto tra madre e figlio: la donna non ha più marito, vedova quindi, ma sembra che mai sia esistito un uomo nella sua casa, un uomo col quale abbia intrattenuto una relazione.

La donna, se così si può chiamare, ha educato, anzi programmato per la gloria e l’onore, quasi un riflesso pavloviano:

«Se Marcio invece d’essere mio figlio / fosse mio sposo, sarei più felice / di saperlo lontano a farsi onore, / che averlo a letto a gustarne gli amplessi, / per quanto amore egli potesse effondere.

Quand’era ancora un tenero fanciullo, / e l’unico rampollo del mio ventre, / e la sua fascinosa giovinezza / gli attirava gli sguardi della gente; / quando una madre, neppure se un re / l’avesse scongiurata un giorno intero, / se lo sarebbe fatto allontanare / dalla vista nemmeno per un’ora, / io, presaga da allora della gloria / cui uno come lui era votato /  (ché se brama d’onor non lo animasse, / sarebbe stato nulla più che un quadro / da restare appiccato alla parete), /  ero felice di lasciarlo andare / in cerca di pericolo, / dovunque egli potesse incontrar fama.

E lo mandai ad una cruda guerra, / dalla quale però fece ritorno / col capo cinto di foglie di quercia.

Ti dico, figlia, che di tanta gioia / non sussultai sentendo il primo annuncio / che avevo partorito un figlio maschio, /  quanta fu a veder la prima volta / qual uomo vero egli s’era mostrato.»

Non soddisfatta continua:

«Senti quel che ti dico, cuore in mano: / avessi pur dodici figli maschi, / tutti egualmente amati, / e nessuno di loro meno caro / del tuo e mio buon Marcio, / preferirei vederne morir undici / nobilmente, in difesa della patria, / che saperne uno solo / dissipare la vita nei piaceri, / lontano dalle fatiche di guerra.»

Ancora Volumnia, che di donna ha veramente poco: «Il tuo coraggio è mio: tu l’hai succhiato / da me. Ma la superbia è solo tua.»

Questa figura ha rinunciato a tempo ad essere donna per ripiegarsi sul ruolo di Madre, indiscussa e indiscutibile custode dei valori su cui si fonda Roma; non è una vestale ma è come se fosse una vergine sacerdotessa, dotata della stessa suprema autorità.

Tanto alta è la Madre che Coriolano commenta così la sua supplica in ginocchio: «Mia madre mi s’inchina… / È come se l’Olimpo si curvasse / ad implorare una tana di talpa».

D’altronde lei ribadisce il concetto: «gli dèi ti faranno ripagare / questo tuo rifiutare l’obbedienza / che spetta di diritto ad una madre…»

E Coriolano conclude, logicamente: «Guarda, s’aprono i cieli e di lassù / irridono gli dèi a questa scena / innaturale! Oh, madre, madre, hai vinto!

Una felice vittoria per Roma; / ma per tuo figlio – credilo, ah, credilo! – / hai prevalso su lui, ma esponendolo / a un pericolo estremo, / se non proprio alla morte. E così sia!»

In realtà Coriolano ha trovato una corretta soluzione, una pace onorevole per entrambi i popoli, ma questa rinuncia a distruggere Roma, ormai a portata di mano lo esporrà alle ritorsioni dei volsci.

Volumnia, dunque, è il “Mater familias”, il padrone che comanda.

Ieri ho avuto occasione di scambiare alcune parole sulla questione delle diaconesse che il Sovrano Pontefice felicemente regnante pare intenda recuperare dalle siderali distanze della storia. Ne è venuto fuori che delle diaconesse pare sia sorta solo adesso la necessità perchè… molto semplicemente perchè in precedenza non c’è mai stato bisogno.

Le donne, e in particolare le mamme (e le nonne, il Papa ad esempio ha fatto frequenti riferimenti a sua nonna se non ricordo male) sono state, da sempre, le custodi della vita religiosa della famiglia; anche delle famiglie anticlericali.

La mamma, angelo del focolare, era la sacerdotessa della religione cristiana: se gli uomini avevano la gestione pubblica della religione, alle donne spettava un incontrastato dominio della vita religiosa privata.

Mi raccontava l’amico don Pier Alberto Sancisi che ai tempi del suo insediamento nella parrocchia di Poggio Berni, sulle colline riminesi, una trentina d’anni or sono, soltanto le donne andavano in chiesa, perchè la religione era affar loro; nella Romagna anticlericale restava comunque viva la pratica religiosa, custodita dalle madri.

La moglie di Peppone, nei film tratti dalle opere di Guareschi, in fondo è la quinta colonna di don Camillo in casa dell’anticlericale sindaco.

Oggi che anche le donne navigano per ben altri lidi (non meno religiosi di un tempo ma distanti dal cristianesimo), si sente la necessità di una figura istituita: si clericalizza qualcuna di quelle che non vedono l’ora di diventare, come i maschi, dispensatrici del sacro.

La donna ha abbandonato la chiesa ma è rimasta la Mamma o Madre ovvero la quintessenza della religione: ama di un amore incondizionato, vuole solo e sempre il bene dei figli, rispetto al quale è disposta a qualsiasi sacrificio ed è ingiudicabile.

Maria è stata trasformata nella Mamma Celeste a confermare l’assunto.

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